Nel tempo della purpose economy a bordo di un’auto green-tech. Viaggiando verso il futuro
Benvenuti nei nostri Insights Longform, contenuti di approfondimenti mensili per comprendere quello che sta avvenendo intorno a noi e per raccogliere le sfide future che riguardano persone, imprese, comunità. Buona lettura.
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Una scelta bizzarra, incomprensibile. Persino impossibile da capire, almeno all’inizio. Lasciare quel colosso della Nasa per inseguire un sogno fatto però di ricerca, innovazione, futuro. Ma si sa, la vita spesso si dispiega oltre quei piani strategici messi nero su bianco e quella decisione apostrofata come una “follia” si sarebbe rivelata poi nel tempo vincente. Un’idea di fare impresa, ma anche di essere, abitando al meglio il mondo da protagonista. Questa è la storia di Fabrizio Martini, milanese classe 1986, esperto in tecnologie di accumulo di energia. Un passato come ingegnere della Nasa: è lui ad aver gestito in prima persona un progetto per oltre 10 milioni di dollari.
Ma c’è di più. Questo talento italiano globetrotter per scelta ha contribuito al raggiungimento di sei record mondiali relativi alla tecnologia dei cosiddetti ultracondensatori, dispositivi hi-tech di energia. Ha anche creato con successo lo sviluppo di una batteria per l’esplorazione spaziale - Venus Rover Project. Negli anni è stato incaricato della commercializzazione del primo ultracondensatore ad alta temperatura per applicazioni petrolifere, gas e geotermiche. Ma Fabrizio Martini è stato anche il punto di contatto per diverse società nel campo aerospaziale e della difesa, autore di ben quattordici brevetti relativi alle tecnologie di accumulo di energia. Poi nel 2015 a Boston fonda Electra Vehicles, startup che unisce dati, machine learning, intelligenza artificiale ed elettrificazione. «Sai qual è la cosa più bella che ho imparato? Che tutti noi su questo pianeta vogliamo un mondo migliore. E che le forze del bene sono più potenti del male. Io credo nella rivoluzione elettrica». Così ha dichiarato a Repubblica, intervistato da Eleonora Chioda.
In viaggio
Dal 2015 ai giorni nostri, da Boston a Las Vegas. Un viaggio di tremila miglia – ossia quasi cinquemila chilometri – a bordo di un veicolo green alimentato solamente ad energia elettrica e con installata la tecnologia proprietaria AI-driven per il monitoraggio, l’ottimizzazione e il controllo della batteria della vettura. Una missione che reinterpreta il più noto “coast to coast” americano in chiave ambientale e tecnologico. Perché la sfida di Electra Vehicles tiene insieme la tecnologia, la mobilità sostenibilità, la ricerca continua, il gioco di squadra, le alleanze internazionali e quella capacità di guardare oltre. Anche il nostro Gruppo Sella è salito a bordo di questo veicolo che sta ripensando la mobilità sostenibile e scrive nuove pagine di futuro (lo abbiamo raccontato qui). Una decina di giorni su strada per arrivare poi al CES di Las Vegas, la più grande fiera mondiale dell’innovazione e della tecnologia. Un viaggio incredibile che ha macinato chilometri e allo stesso tempo ha percorso scenari mozzafiato e ha attraversato culture differenti. Lì nell’auto c’è sempre Fabrizio Martini, accompagnato dal technical solution architect di Electra Vehicles Pietro Mosca. Una missione per misurare in tempo reale la salute del veicolo: un monitoraggio della performance della batteria grazie a tecnologia software proprietaria e supportata da hardware IoT. I dati raccolti proprio dalla batteria, dall’ambiente e dallo stile di guida ora verranno elaborati nel cloud tramite algoritmi avanzati di intelligenza artificiale, generando informazioni dettagliate per il conducente e la gestione del veicolo, anche in contesti di flotte. «Questa analisi abiliterà la manutenzione predittiva, anticipando anomalie per salvaguardare la salute della batteria, estenderne la vita utile fino al 40% e fornire stime precise dell’autonomia. Il sistema, basato su monitoraggio AI-driven, ridurrà ancora di più l’ansia da autonomia, migliorerà la sicurezza e ottimizzerà le prestazioni con coaching in tempo reale», dice Martini.
Scelta di campo
Electra Vehicles è stata fondata a Boston dieci anni fa e dal 2022 ha una sede europea a Torino. Al lavoro conta cinquanta persone in nove Paesi del mondo. L’azienda ha già raccolto più di 25 milioni di dollari e ha avviato un’altra raccolta fino a 40 milioni di dollari. L’intuizione parte proprio da quella scelta bizzarra, incomprensibile: all’epoca Fabrizio Martini lavorava con principal investigator sull’estensione della batteria su rover spaziali. E si è chiesto: ma se dallo Spazio la nostra attenzione si spostasse sulla Terra? Così il suo interesse è migrato sulla tecnologia per veicoli terrestri. Oggi i principali limiti all’adozione massiccia delle vetture elettriche sono molteplici e interconnessi. La range anxiety, ossia la paura di non riuscire a trovare un posto dove ricaricare, rappresenta una delle maggiori barriere: il 54% dei guidatori teme di rimanere senza carica, aggravato da stime spesso imprecise con errori fino al 20%. A questo si aggiungono gli alti costi di sviluppo: introdurre nuove chimiche per le batterie può richiedere fino a 10 anni e investimenti di circa 1 miliardo di dollari. Un’altra sfida è la limitata durata delle batterie con una vita media di 8-10 anni, che comporta crescenti costi di manutenzione e pesi operativi. Infine per le flotte l’integrazione dei veicoli elettrici presenta criticità legate a valore residuo, previsione dei guasti e pianificazione della manutenzione, rendendo la transizione più complessa e onerosa. Ecco, il viaggio prova a sfatare questi luoghi comuni. E a trasformare l’impossibile in possibile. Altro che scelta bizzarra. Semmai è una scelta di campo.
Lavori con scopo elevato
Dal cosa al come e soprattutto al perché. Così le sfide ambientali, sociali, comunitarie diventano centrali per quei leader e per quelle aziende che si chiedono che posto avere nel mondo. D’altronde ciò che distingue questa trasformazione dai precedenti salti tecnologici è che avviene contemporaneamente a sfide globali come la crisi climatica. «Non possiamo più ragionare come se avessimo risorse infinite e vincoli trascurabili», ha affermato pochi mesi fa Mario Calderini, professore ordinario di Impact and Sustainability Management alla School of Management del Politecnico di Milano durante una puntata del nostro #CosaCambia live dall’Open Innovation Center di Torino. Una necessità all’azione, più che un auspicio. Lo ha scritto anche l’Economist in una copertina entrata nella storia e pubblicata quattro anni fa. Nessun luogo è sicuro, si legge a chiare lettere, con un riferimento al mondo con 3 gradi in più di temperatura. Una visione distopica e surreale con i pinguini intenti a guardare la TV da una poltrona alla deriva in mezzo al mare. Una copertina meravigliosa, nella sua drammaticità. Si avverte l’urgenza di agire per cambiare le cose, ma con un’azione plurale. Così ha fatto notizia, sempre in America, la storia di un corridore che è anche diventato suo malgrado un trascinatore di folle e di ideali. Anche in questo caso all’inizio la missione del trail runner Jared Campbell sembrava impossibile. Raccogliere fondi per la difesa della qualità dell'aria correndo per il Grandeur Peak di Salt Lake City, un percorso altamente impegnativo. Siamo nello Utah segnato dalle vaste distese desertiche e dai monti Wasatch. L'anno successivo alla corsa di Campbell si uniscono alcuni amici e l’anno dopo molti altri e poi ancora altri. In una dozzina d’anni il progetto si trasforma in Running Up For Air, movimento mondiale con decine di gare, centinaia di corridori e migliaia di dollari raccolti in tutto il mondo. Così una corsa costruisce una comunità per generare cambiamento ben oltre i sentieri percorsi. E di fronte al peggioramento dell'aria, ci si unisce per agire. Una storia raccontata dal brand di abbigliamento Patagonia in un documentario che narra proprio la nascita di Running Up for Air. «Perché dovremmo prenderci cura dell’aria? Perché teniamo alle persone», ha dichiarato alla stampa Luke Nelson, trail running ambassador di Patagonia. Per cambiare il mondo, ancora una volta si parte dalle persone.
La differenza la fa il coinvolgimento, soprattutto delle nuove generazioni. Perché mai come oggi proprio la generazione Z, prima di sapere quanto guadagna, desidera comprendere lo scopo dell’azienda e la centralità del capitale umano nelle politiche aziendali. Così l’attrazione di talenti passa da quanto si è attenti alle persone e di riflesso al pianeta. “I giovani cercano lavori con uno scopo più elevato”, ha titolato Time, rilanciando una ricerca McKinsey. Molte persone non vogliono più limitarsi a lavorare, ma darsi da fare per il prossimo, per l’ambiente, per le comunità nelle quali vivono. Gli analisti evidenziano come il 70% degli americani affermi di definire il proprio scopo attraverso ciò che fa. Un dato importante e che ridefinisce il paradigma dell’organizzazione del futuro. Si tratta di 7 lavoratori su 10. «Benvenuti nel nuovo posto di lavoro, dove avere un impatto positivo e abbracciare uno scopo sono elementi determinanti per attrarre i lavoratori più giovani, che chiedono ai datori di lavoro di dimostrare uno scopo oltre il profitto», ha scritto Bruce Horovitz su Time. Ovviamente tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, con tutte le sue difficoltà e contraddizioni. La società di consulenza globale Gallup ha posto ai lavoratori un quesito rivelatore: la tua organizzazione ha un impatto positivo sulle persone e sul pianeta? Ebbene, solo il 43% degli intervistati ha risposto sì. I dipendenti che sono d'accordo hanno il doppio delle probabilità di essere coinvolti nel proprio lavoro e sono 5,5 volte più propensi a fidarsi della leadership della propria azienda. Ecco la cartina di tornasole della nuova purpose economy diventata sinonimo di senso, valori, crescita personale.
La nuova purpose economy
Già, ma di cosa stiamo parlando? Il primo ad averla teorizzata oramai undici anni fa è stato Aaron Hurst nel bestseller “Purpose economy - come il tuo desiderio di impatto, crescita personale e comunità sta cambiando il mondo”, rilanciato anche dal New York Times in un pezzo a suo firma dal titolo provocatorio: essere buoni non è l’unica strada da percorrere. Insomma, in ballo c’è molto altro. «Una serie di cambiamenti stanno avvenendo nella nostra economia: i millennial stanno abbandonando percorsi di carriera convenzionali per lanciare startup o piccole imprese radicate nelle comunità locali. Condividiamo tutto, dalle biciclette e auto alle stanze extra nelle nostre case. Ora creiamo, acquistiamo e vendiamo facilmente prodotti artigianali nei nostri territori. Lo scopo è il nuovo motore dell’economia», scrive Hurst. Come l’economia dell’informazione che fino ad ora ha guidato l’innovazione e la crescita economica, questo imprenditore visionario sostiene che la nostra nuova era economica è guidata dal collegamento delle persone ai loro scopi. «È un'economia in cui il valore risiede nello stabilire uno scopo per dipendenti e clienti, soddisfacendo bisogni più grandi dei loro e consentendo la crescita personale e la costruzione di una comunità. Questa nuova era sta già alimentando la domanda di tutta una serie di prodotti e servizi. Tutto ciò è Purpose Economy», ricorda Hurst, che venticinque anni fa lasciò un lavoro tecnologico ben pagato per lanciare Taproot, creando un percorso per milioni di professionisti e aziende Fortune 500 impegnate a fare volontariato. La purpose economy è proprio questo: un grande movimento di persone che mettono al centro del loro lavoro – qualunque esso sia – l’impatto sociale che attraverso quel lavoro vogliono avere. Un contributo consapevole alla comunità – locale o globale, non importa – a partire dalle questioni sociali che stanno loro più a cuore. Ed è dimostrato che ci si guadagna anche di più. Oggi per tutte le organizzazioni di eccellenza – siano esse grandi multinazionali, Pmi o ancora micro-imprese – le strategie di posizionamento e di business passano necessariamente dalle azioni messe in campo sul fronte della sostenibilità ambientale e sociale.
Così si parla di impatto, ossia di quella generazione di valore per l’azienda, per tutti i suoi stakeholder, per le comunità nelle quali opera. È il presupposto delle migliori imprese impact-driven. In Sella ce lo ha raccontato Tiziana Monterisi, che con la sua Ricehouse realizza case ecologiche fatte con gli scarti del riso e ha creato uno scambio di conoscenza tra architetti e agricoltori. E ancora Francesca De Gottardo, che ha fondato Endelea, startup B-Corp che fra Milano e la Tanzania crea abiti e accessori in tessuti africani favorendo lo scambio di conoscenza tra competenze diverse. E poi ancora Stefano Caccavari, che con Mulinum ha ridato vita all’ultimo mulino in pietra della Calabria e ora anche in Toscana ha riacceso una filiera del grano che dà lavoro a decine di persone. Ma in collegamento dalla Scuola Holden di Torino ormai un anno e mezzo fa per uno dei nostri #CosaCambia abbiamo anche ascoltato dall’Olanda Iris Skrami con Renoon, dalla Puglia Simone Chiriatti con Olivami, dal Veneto Gianni Dalla Mora con Womsh, dal Piemonte Michele Fenoglio con Wami, dalla Toscana Edo Volpi con Vapori di Birra, dall’Afghanistan Selene Biffi con She works for peace. La partita della rilevanza per l’impresa del futuro si gioca tutta sulla cultura aziendale. Lo ha scritto anche Simon Sinek, uno dei massimi studiosi di management al mondo, autore del bestseller tradotto in Italia col titolo “Partire dal perché” edito da FrancoAngeli: «Oggi più che in passato la gente non compra ciò che fai, ma il perché lo fai». Attorno a questa nuova scelta di campo che predilige l’essere all’apparire, la sostanza alla forma, la concretezza alla mera facciata andranno costruite tutte le politiche per le organizzazioni del futuro.