Il valore del sé e della comunità per il cercatore di alberi Tiziano Fratus. “La forza sta nell’eco-sistemarsi”
Il mondo, il mondo là fuori, è ben lontano da queste righe, da questa pagina, da questo bianco ipnotico nel quale riversiamo così tante idee brillanti, pensieri, ricordi, speranze, angosce e invenzioni. C’è chi poeticamente intende la stessa letteratura come una sospensione, una vita di mezzo, una vita a suo modo. Ma anche i boschi, per come li possiamo frequentare oggigiorno, sono diventati una vita sospesa, una vita a suo modo. Se dovessi iniziare a citare poeti – italiani, americani, francesi, europei, asiatici, australiani… contemporanei di queste ultime stagioni, contemporanei novecenteschi, moderni, medioevali, millenari, addirittura antichi – che si sono abbandonati all’abbraccio della natura o di come retoricamente ci siamo abituati a indicarla, la Madre Terra, probabilmente non mi basterebbe più nemmeno un volume di duecento o trecento pagine! Non lo sottolineo per celebrare una mia presunta cultura, ma per segnalare quanti autori oramai abbiano attraversato, vissuto, interpretato e animato la “natura”.
La forza dell’eco-sistema
Abbiamo tante definizioni di eco-sistema, alcune più stringenti, altre più lasche; alcune meramente ambientali e scientifiche, altre più filosofiche, aleatorie. Che cos’è un eco-sistema per noi in questo istante? Dove vivo io, un paesello come tanti ai piedi della Alpi, l’eco-sistema è l’insieme di interno ed esterno, un più, un segno crociato, una piantina di chiesa a croce greca: c’è lo spazio dello studio, la casa, la certezza, la sicurezza, il senso di “tanabilità” di cui molti, non tutti, hanno bisogno. E c’è lo spazio esterno composto da innumerevoli articoli e animosità: le fronde di uno stanco albicocco che quasi battono alla mia finestra, i prati intorno, la collina boscata di fronte, il canto degli usignoli, i gatti che dormono nelle scatole e sui cuscini e i vicini più indaffarati che a quest’ora già si chinano per lavorare e curare. Il mio minuscolo eco-sistema è tutto questo, insieme, certo, anche alle esperienze che mi porto addosso, alle foto degli amici che non ci sono più, come tanti uomini di mezza età, inizio a costellarle per casa, come se gestissi un museo di anime. Certo, se qui avessi un ecologista ora parleremmo soprattutto, se non esclusivamente, della natura semiselvatica del paesaggio intorno, del matrimonio ostinato e difficoltoso tra natura selvatica e paesaggio agrario, oppure delle immagini agghiaccianti del crollo del ghiacciaio del monte Birch che ha investito il comune, per fortuna evacuato, di Blatten, in Svizzera, della fine oramai certificata dei ghiacciai europei, tutti in profonda agonia.
Il mondo che abitiamo
A quest’ora, qui, baciati da un leggero venticello rinfrescante, alle 6.02 del mattino, il mondo sembra un paradiso, un Eden che alla fine vale la pena di abitare. Eppure basterebbero poche migliaia di chilometri per ritrovarsi nella devastazione senza deroghe e senza speranza di Gaza e di quella che fino a pochi mesi fa era la Striscia di, mentre ad altre migliaia di chilometri ci sarebbero le case e i palazzi bucherellati che segnano il confine tra Ucraina e Russia. E oltre ci sarebbero i cento conflitti del mondo che i nostri telegiornali non seguono e di cui noi ignoriamo la tragedia quanto la portata. Ogni tanto mi chiedo come sia possibile riuscire a cucire libri o mostre fotografiche o a imbastire convegni parlando soltanto di natura – ossia di bella natura, di natura da vedere, da sentire, da ammirare o da proteggere – vivendo nel mondo nostro che è fatto ancora così come è fatto. Eppure lo facciamo, anzi, oltre al piacere, al diletto, ne abbiamo di certo bisogno. Nel mio modesto orto stiamo raccogliendo le fragole. Erano anni che se ne assaggiava poche, talora a causa della mancanza di dedizione, talora a causa di mesi di maggio eccessivamente piovosi. I pomodori crescono timidamente, ma fioriscono. Lo stesso dicasi delle piantine di zucchine, le insalate – divorate più dalle lumache che dai noi ma pazienza – e il basilico, mentre le melanzane languono. Il prugno di Regina Claudia promette bene, mentre i ciliegi oramai sono già spogliati. Certo non sono più le primavera di quando ero bambino, più uniformi: quando era tempo di ciliegie non potevi evitare di mangiarne, così come quando era tempo di fragole, di pesche, di fichi o di granturco. Tutto questo non c’entra con l’eco-sistema? Invece c’entra, c’entra eccome, perché l’eco-sistema di ciascuno di noi è la storia e il mondo che abita, è l’insieme delle une quante delle altre presenze, siamo ciascuno di noi e le proprie parole, i ricordi e le attenzioni, i gesti, i comportamenti, le nozioni, gli alberi, i francobolli di terra, i cambiamenti – climatici, ambientali, sentimentali, economici e sociali – queste sono le nostre radici, mica soltanto chi ci ha messo al mondo o la nazione, la lingua, l’etnia; troppo generico dire italiano, troppo generico e indefinibile dire bianco-caucasico, maschio bianco caucasico. Anche il nome e il cognome, di per sé, possono risultare troppo generici. Noi siamo l’eco-sistema che abitiamo, ecco perché quando qualcuno che amiamo ci lascia, ci manca qualcosa di più di una semplice voce, di un paio di occhi, di due mani o di alcune abitudini; è il suo eco-sistema che implode, che se ne va con lui o con lei. Noi, siamo sempre noi, ma meno, o diversamente da prima: l’eco-sistema è cambiato, cambia ogni giorno, cambia naturalmente.