A Thousand Words, il film su Vittorio Sella, esploratore controcorrente. Sharman: «Oggi troppe scorciatoie, lui scelse la via più difficile»
«Qual è la tua vetta? Quale percorso – difficile, impervio, vero – sei disposto a scegliere per raggiungerla?». La risposta non è scritta in alcun luogo. Sta nella prossima immagine che deciderai di scattare. Nella prossima meraviglia che sceglierai di seguire. Nella prossima avventura che avrai il coraggio di vivere. Quel coraggio che faceva di Vittorio Sella un uomo capace di fermare il cielo e un visionario capace di ricominciare. Procediamo con ordine. Londra, Alpine Club, archivio sotterraneo. Due uomini, una luce artificiale, l’odore di carta che ha attraversato secoli. E poi un’immagine che emerge come un respiro trattenuto troppo a lungo. Una fotografia in grande formato: montagne incise come sculture, un cielo che sembra sospeso in attesa di qualcuno che lo guardi davvero. Sopra un angolo di carta ingiallita, una firma: Vittorio Sella, 1899. È in quell’istante, in quella sala, che nasce il film A Thousand Words.
Per Matt Sharman – fotografo e filmaker dal tratto geniale, ma anche regista, esploratore, guida alpina di quell’Himalaya che è diventato per lui una seconda casa – non è una semplice immagine. È un richiamo. Come se quella stampa, la prima a mostrare l’Everest al mondo, non si limitasse a raccontare, bensì chiamasse. In quel panorama non c’è solo la montagna più alta. C’è un uomo che ebbe il coraggio di volerla fermare. Di voler portare ai suoi occhi, e a quelli degli altri, ciò che il mondo ancora non conosceva. Vittorio Sella era così: non voleva solo scalare. Voleva vedere. E voleva che tutti potessero vedere con lui. Sharman sente una scintilla. Lo sguardo si accende, la mente corre. E un desiderio prende forma: ripercorrere le orme di Vittorio Sella dopo centoventicinque anni. Cercare quel punto esatto, là dove il treppiede di Sella toccò il cielo. Riportare nella stessa inquadratura la stessa maestà. La stessa vertigine. Perché quell’uomo di Biella scelse la via più difficile. E la difficoltà è ciò che dà valore alla bellezza. Ma le storie non si fanno da soli. E così Matt coinvolge l’amico e co-regista Dom Bush. Si unisce Pietro Sella, Ceo del gruppo Sella e custode di quell’immaginario alpino trasformato in patrimonio culturale. Perché l’eredità – quella vera – non è mai un album di ricordi. È un ponte verso ciò che ancora bisogna raccontare.
Novembre 2025. Il docufilm debutta al Kendal Mountain Festival. Ma per arrivare fin qui c’è stato un cammino lungo, durissimo, necessario. Dieci giorni di trekking, zaini pesanti. macchine a grande formato mai usate prima, notti fredde e una fatica che diventa preghiera. Poi una domanda rimbomba nella testa di Sharman: perché esploriamo? «La nostra specie ha un desiderio profondo: andare oltre». “Non fotografare ciò che vedi. Fotografa ciò che senti”. È un mantra che nel film appare come una chiave segreta. Un modo per dire che la verità non sta nella nitidezza. Sta nella dedizione. Per Vittorio Sella la bellezza era sforzo: attraversava la materia per diventare emozione. Così “A thousand words” diventa un gesto controcorrente: rallenta per restituire significato. E poi c’è un altro elemento che pulsa nel film: la responsabilità. Volare fino all’Himalaya significa lasciare una traccia. Ma se la consapevolezza dell’impatto diventa messaggio, se le immagini portano cura, allora l’impatto stesso può trasformarsi in una forma di difesa del pianeta. Un racconto che invita a proteggere ciò che si ammira.
Come nasce l’idea di seguire le orme di Vittorio Sella e ricreare, dopo 125 anni, la sua storica fotografia dell’Everest?
«Il mio co-regista Dom Bush ed io stavamo lavorando a un documentario storico sulle prime spedizioni all’Everest negli anni Venti. Durante le riprese nell’archivio dell’Alpine Club di Londra, Dom si imbatte in un panorama straordinario di Vittorio Sella scattato nel 1899 da qualche parte sulle pendici del Kangchenjunga, in Nepal. Era la prima immagine mai scattata che mostrasse la montagna più alta della Terra. Quell’immagine è bella e ispirazionale. Come filmmaker entrambi abbiamo capito che poteva essere l’inizio di una storia potente».
Cosa l’ha più colpita di Sella durante la ricerca negli archivi e nei luoghi da lui esplorati?
«Tantissime cose sono impressionanti in Vittorio Sella! La bellezza, la chiarezza e l’intensità delle sue immagini sono davvero speciali: nonostante più di un secolo di progressi tecnologici, le sue fotografie conservano una potenza straordinaria. Ho capito quanto Vittorio sapesse combinare passioni ed expertise con energia e dedizione: come dice Pietro Sella nel film, “È un modo di vivere la fotografia, un modo di vivere la montagna”»
Il film unisce esplorazione geografica e riflessione esistenziale: qual è il vero centro del viaggio?
«Il centro della storia è Vittorio Sella. Spero si percepisca la sua presenza per tutto il film. È come se ci guidasse nel viaggio fisico e intellettuale: il suo approccio alla creazione delle immagini, la sua passione per l’esplorazione. Un vero pioniere, sia geograficamente che artisticamente. Oggi troppi scelgono scorciatoie. Lui scelse sempre la via più difficile, e il suo lavoro è migliore proprio per questo»
Nell’era dell’istantaneità, quale è il valore di una fotografia lenta, costruita con fatica e pellicola?
«Imparare a usare una grande formato per onorare il processo di Vittorio Sella mi ha insegnato quanto sia significativo rallentare. Rallentare ti obbliga a notare, a essere davvero presente. Crea connessioni più profonde con ciò che fotografi e con il mondo. Oggi la velocità rende più difficile questo legame profondo»
C’è stato un momento in cui ha sentito di incontrare Sella, oltre il tempo?
«Arrivati al villaggio di Ghunsa, dopo dieci giorni di trekking, le nostre strade finalmente si sono incrociate: noi arrivavamo dal Sud, Vittorio Sella dal Nord ben 125 anni prima. Cercando l’esatta posizione del suo scatto, ho individuato una piattaforma di roccia esposta: ho capito subito che era lì che avrebbe messo la sua macchina. Tempo e spazio, per un attimo, sono spariti»
Come ha interpretato il dialogo tra fotografia ottocentesca e prospettiva digitale contemporanea?
«È una questione di cura e attenzione. Vittorio Sella si è guadagnato le sue immagini con esplorazione, invenzione, fatica fisica e dedizione mentale. Ha prestato attenzione reale. Con il digitale spesso prendiamo scorciatoie. E con l’AI, le immagini non devono nemmeno essere reali! È il viaggio a dare significato alla fotografia: non fotografare ciò che vedi, ma ciò che senti»
Quanto conta oggi l’equilibrio tra dimensione fisica e spirituale dell’esplorazione?
«L’essere umano ha il desiderio innato di esplorare. È un modo di imparare, di ampliare la comprensione del mondo. Quando fisico e spirituale si uniscono nel gesto dell’esplorazione, succedono cose interessanti ed eccitanti»
Il progetto trasmette sensibilità ambientale. In che modo la sostenibilità ha influito sulle scelte produttive?
«La crisi climatica è la grande sfida del nostro tempo. Abbiamo cercato ovunque di minimizzare l’impatto e abbiamo donato a enti per la riforestazione nel Regno Unito. Certo, abbiamo volato. Ma spero che le immagini di paesaggi straordinari spingano a proteggerli»
Quale immagine o momento riassume al meglio il lungometraggio?
«Il panorama di Vittorio: un invito all’avventura 125 anni fa, e lo stesso per me oggi. Quando ho rivisto con i miei occhi quella linea d’orizzonte, esattamente dal punto in cui lui scattò, ho capito che avevamo trovato il posto giusto»