Quella montagna che ci interroga e quel tempo che scivola via
C’è una foto. Una di quelle scattate in silenzio, al mattino presto, quando la luce non è ancora luce e la neve non è ancora bianca. Una foto che sembra perfetta, se non fosse per ciò che manca. Lo sfondo è quello giusto: un versante delle Alpi innevato, i profili netti, l’aria pulita. Ma qualcosa stona. O meglio: qualcosa non c’è. Manca il ghiacciaio. Manca l’elemento che avrebbe dovuto essere lì, secondo mappe, guide, racconti di chi ci è passato trent’anni fa. La montagna non mente. La montagna non fa sconti. E quando la si fotografa davvero – con onestà, senza filtri, senza effetto nostalgia – è allora che comincia il vero racconto.
Negli ultimi vent’anni, i ghiacciai delle Alpi hanno perso circa il 39% della loro superficie, un tasso di riduzione superiore alla media globale. Secondo i dati del CNR, dal 2006 si sono persi oltre 1.000 chilometri quadrati di superficie di ghiaccio. Alcuni ghiacciai – come il Calderone sul Gran Sasso – sono già considerati relitti. Ogni estate, tra il caldo record e l’assenza di neve primaverile, i ghiacciai si ritirano di metri. O di decine di metri. Non è un processo. È una scomparsa. Fotografare il presente, in questo contesto, non è solo un atto estetico. È un atto politico, scientifico, affettivo. È guardare negli occhi un paesaggio che conoscevamo in un modo, e che ora ci dice altro. Ci chiede: mi riconosci ancora? Come scriveva Reinhold Messner: «La montagna è un altare. Ma ora non è più chi prega, è chi viene pregata». Pregata di resistere, di non sparire, di salvarci anche stavolta.
FOTO GETTY MESSNER
«Quando la bellezza è in pericolo, è il mondo stesso che si ammala».
Lo ha detto lo scrittore Paolo Cognetti, che vive tra le montagne della Val d’Aosta e ha dedicato pagine dense al paesaggio alpino. E davvero, oggi, la bellezza della montagna è sotto attacco. Non per un cataclisma. Ma per il logoramento lento, quotidiano, visibile solo a chi osserva con attenzione. Le fioriture anticipate. I nevai estivi che diventano ruscelli. Le frane frequenti. I boschi che si ammalano. I camosci che salgono più in alto. I rifugi che aprono settimane prima. La montagna ci sta parlando da anni. Solo che lo fa con un tono basso, educato, come quei nonni che non vogliono disturbare. Ma ora quel tono è diventato un grido. Solo che, come tutti i gridi veri, non fa rumore.
Secondo l’IPCC, il comitato scientifico dell’ONU sul cambiamento climatico, l’aumento medio delle temperature sulle Alpi è il doppio rispetto alla media globale. E secondo uno studio pubblicato su Nature nel 2022, se le emissioni non verranno ridotte, il 90% dei ghiacciai alpini potrebbe scomparire entro la fine del secolo- Eppure, fuori dai convegni e dalle aule universitarie, la percezione resta debole. C’è un “clima del clima” fatto di titoli veloci, dichiarazioni contraddittorie, allarmi che si rincorrono ma che, spesso, non arrivano al cuore. Perché non basta più dire che fa più caldo. Bisogna farlo vedere. Bisogna farlo sentire. Come ha fatto il fotografo svizzero Daniel Schwartz, che ha dedicato vent’anni a immortalare il ritiro dei ghiacciai. «Volevo far vedere il tempo che scivola via» – ha detto. E il tempo, in effetti, scivola. Non solo sui ghiacciai, ma anche su di noi.
FOTO GETTY SCHWARTZ
Ma di chi è la colpa? Della politica che fa troppo poco? Delle grandi industrie? Dei negazionisti? Dei turisti in fila per un selfie in vetta? O forse – più onestamente – anche nostra? Il cambiamento climatico non è un mostro esterno. È un figlio delle nostre scelte. Non ci piove addosso. Lo abbiamo cucito noi, un filo alla volta: con le abitudini, i consumi, le parole non dette, i viaggi presi senza pensarci troppo. E allora fotografare il presente significa anche fotografare noi stessi. Vederci per come siamo, senza scuse. La parola “paesaggio” in molte lingue europee ha a che fare con la “visione”. Ma non basta vedere: serve saper vedere. Oggi ci servono occhi nuovi per guardare l’ambiente. Non più come sfondo da attraversare, ma come organismo vivente. Non più come bellezza da conservare in teca, ma come compagna di strada. Diceva Mario Rigoni Stern: «La montagna non è mai selvaggia. Siamo noi che, se non l’ascoltiamo, diventiamo sordi». E ascoltare, oggi, significa anche cambiare. Cambiare scala, prospettiva, parole.
Fare qualcosa è possibile. Non tutto. Ma qualcosa sì. Ridurre i consumi. Scegliere con consapevolezza. Curare il paesaggio. Appoggiare chi fa ricerca. Imparare a raccontare con verità, e senza paura di essere scomodi. E poi – perché no – salire in montagna. Camminare. Ascoltare. Toccare. E tornare a quella foto, dove mancava il ghiacciaio Forse non era una mancanza. Forse era un invito. A esserci. A fare attenzione. A lasciare tracce diverse da quelle che sciolgono la neve. Perché il futuro non lo si fotografa. Ma lo si può ancora immaginare. E forse – se impariamo a guardare, se impariamo ad ascoltare – anche costruire. Un passo dopo l’altro, in salita. Come in montagna. Con rispetto. Con fatica. Con lentezza. E con quella fragile, ostinata, umanissima speranza che sa ancora riconoscere la bellezza.
*Federico Taddia è autore televisivo e di documentari (tra gli altri di Fiorello e Jovanotti), saggista e divulgatore scientifico (ha scritto per anni in coppia con Margherita Hack). Per Sella Insights ha scritto questa riflessione sullo stato di salute delle montagne