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La differenza tra semplice e facile e perché il buon design è un mestiere difficile che deve sembrare facile

Costruire il design di un oggetto attraverso la potenza espressiva della semplicità è in realtà il risultato di un lavoro estremamente complesso. Il guest post di Chiara Alessi, una delle voci più note nello studio del design, autrice - tra i vari testi - di "Tante care cose. Gli oggetti che ci hanno cambiato la vita" e "Lo Stato delle cose" per Longanesi
La differenza tra semplice e facile e perché il buon design è un mestiere difficile che deve sembrare facile
Chiara Alessi
07 Feb 24
#innovazione

Negli anni ho provato a mettere a fuoco una definizione di design che mi aiutasse a circoscrivere una risposta almeno parzialmente, o personalmente, soddisfacente a una domanda impossibile. Che cos'è il design? Se, come si sente spesso dire e ripetere, tutti sono designer perché grazie alla diffusione e all'accesso sempre maggiore ai mezzi di produzione chiunque è messo nella condizione di diventare un creatore - di contenuti, di idee, di soluzioni, di narrazioni, se non di artefatti veri e propri - allora tutto è design. Ma per me qualcosa è più design di altro e qualcuno è più designer di altri. E credo che questa necessità di isolare il "design design" o il "design più design" dal tutto è design: paradossalmente amplifica l'istanza democratica del design e ne garantisca la presa in carico di una questione collettiva o addirittura sociale, più che insistere nel carattere individualista del "ciascuno per sé".

Provo a spiegarmi: se il motore del nostro agire quotidiano fosse provvedere autonomamente al soddisfacimento di questioni personali (dal grande al piccolo, dal politico al domestico e viceversa) oltre al carico del normale svolgimento - nel migliore dei mondi possibili: ciascuno secondo i propri mezzi, ambizioni, talenti, interessi -  di una professione, di una vita sociale, o affettiva, ciascuno di noi sarebbe impegnato in una monade autosufficiente volta a garantire il funzionamento di faccende banali, che improvvisamente diventerebbero tutt'altro che scontate senza gli strumenti che ci consentono di svolgerle agilmente: cucinare, orientarsi, apprendere, spostarsi, informarsi, giocare, riposare, amare etc. Mi trovo spesso a iniziare le mie lezioni sul design chiedendo a chi ho di fronte con quanto design sia venuto a contatto dalla mattina quando si è alzato o alzata, fino a quel momento, lì davanti a me. La maggior parte delle persone ha in mente che il design sia qualcosa che non riguarda la loro vita, con cui le loro giornate non si incrociano. È abbastanza sorprendente per loro scoprire che il fatto di essere arrivati lì è invece la sequenza di una serie di azioni che hanno coinvolto strumenti, oggetti, funzioni, processi, messaggi, nell'ordine di centinaia all'ora, progettati da qualcuno al posto loro, proprio per garantire che loro potessero essere lì, senza dover far caso o autonomamente arrangiare ciascuno di questi passaggi. Questo è il design, per me: qualcuno o qualcuna ha pensato, lavorato, adeguato un pezzo di questa strada per me perché io potessi procedere fin qui senza dovermene occupare. Questo fanno i designer e le designer, per me: permettermi di non doverci badare, che tutto prosegua liscio, senza intoppi, o addirittura migliori la mia percezione, senza che io sappia perché. Insomma: il buon design è meno design possibile

Pensiamoci: ci sono solo due circostanze in cui ci accorgiamo della presenza intorno a noi di tutte queste cose progettate che ingombrano la nostra strada dalla mattina quando ci svegliamo alla sera quando andiamo a letto. Una è quando sono fatte male, non funzionano, non durano quanto dovrebbero, contengono un pensiero sbagliato, la progettazione ha fallito, ci costringono insomma ad arrestarci e farci i conti. L'altra è quando sono brutte. È molto più facile accorgersi di quello che non va rispetto a quello che va: è una questione percettiva, il nostro cervello procede così, fino ad arrestarsi sulla discontinuità, a essere catturato dalla deviazione, dall'errore, dalle storture. Anzi, poterle notare, è la conferma che viviamo in città, in case, in stanze, in abiti normalmente ben pensati. Per avere insomma un buon design non è sufficiente da parte di chi progetta (i "designer designer" o "designer più designer") togliere, andare verso una semplificazione che ci permetta (a noi "tutti designer") di vivere senza fare i conti continuamente con le cose materiali (strumenti, case, mezzi pubblici, oggetti, arredi) e immateriali (flussi, immagini, messaggi, processi) ma è anche fondamentale sapere che cosa togliere. 

Usiamo spesso la metafora della natura quando parliamo di semplicità. Io stessa quando ho parlato del buon design ho alluso a quel progetto che procede in modo "naturale", permettendoci di non accorgersi della sua presenza. Ma guardiamola bene, la natura, guardiamo le foglie, i fiori, i monti, le rocce, i corsi d'acqua: non c'è niente di facile, è un sistema complessissimo, con risultati tutt'altro che elementari. Eppure non c'è niente di più e niente di meno di quello che serve. Questa è la differenza tra semplice e facile. Non basta levare o mettere, bisogna sapere che cosa, come e perché. Fare buon design è un mestiere difficile che deve sembrare facile.

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