Dalla Liguria a New York: un viaggio lungo 42 chilometri e 195 metri
Paolo Tamagno, originario della provincia di Genova, lavora nel nostro Gruppo dal 2006 e da 41 anni è dedito alla professione bancaria. Il lavoro e l'affetto lo hanno portato molto tempo fa a stabilirsi a Chiavari, dove oggi è Responsabile Private di Banca Sella.
Nei suoi "62 anni e mezzo", come ama ripetere, Paolo ha sempre praticato sport in maniera amatoriale: il calcio, la bicicletta e, in particolare, la corsa. In tutti questi anni, fra una sgambata sul lungomare della riviera di levante e un'altra lungo il corso del fiume Entella, Paolo ha sempre cullato il sogno di correre la maratona per eccellenza, quella di New York. Un sogno che solo per alcuni diventa realtà e che per Paolo, arrivato ad una certa età, con tanti impegni ed interessi, sembrava destinato a rimanere tale.
Ma Paolo è uno che ama le sfide e quando si mette in testa qualcosa è difficile che cambi idea. Così, un giorno, il suo sogno diventa desiderio, l'idea si fa progetto e la titubanza si trasforma in convinzione: "l'anno prossimo farò la maratona di New York". Questo è il racconto della sua avventura: un'avventura ricca di significato, dove non mancano i colpi di scena e, ovviamente, un lieto fine.
Ciao Paolo, come hai maturato la decisione di partecipare alla maratona di New York?
Anche se non ho propriamente un fisico da runner -sono alto 1,90 e peso 100 kg- correre mi ha sempre aiutato a scaricare le tensioni della giornata e a mantenermi in forma. Io sono una persona che ha sempre avuto bisogno di sfide. Anche nel mio lavoro quotidiano, dopo oltre 40 anni di banca, potrei vivere con un pochino più di calma. Invece sento sempre il bisogno di stimoli, di fissarmi degli obiettivi e di raggiungerli. Così, lo scorso autunno, un periodo in cui mi sentivo particolarmente bene sia psicologicamente che fisicamente, parlando con gli amici, ho detto: "signori, io tra un anno avrò 62 anni: o ci provo questa volta o non ci provo più". A casa non l'hanno presa benissimo. Mi dicevano: "Tu in fondo ci arrivi, certo: piuttosto muori, ma non ti arrendi!". E quindi ho dovuto rassicurarli che se avessi avuto dei problemi mi sarei fermato e non mi sarei spinto oltre il limite. Su questo, devo dire, ho mentito un po'.
Come ti sei preparato per la gara?
Per un anno ho seguito una rigida tabella di marcia sia per gli allenamenti che per l'alimentazione. Dato che patisco il caldo, correvo spesso al mattino presto verso le 05:30, dopodiché tornavo a casa, facevo la doccia e andavo in ufficio. Finché, a dieci giorni dalla partenza ho cominciato ad accusare un problema al ginocchio sinistro e, fatta la risonanza, ho scoperto che avevo parecchie criticità, fra cui un'ampia infiammazione del tendine rotuleo. Fu un duro colpo. Quando l'ortopedico mi sconsigliò anche solo di viaggiare a New York, (figuriamoci di correre!), mi sembrò la fine di un sogno. Poi però, mi sono convinto che dovevo fare consapevolmente tutto quanto era nelle mie possibilità per non arrendermi, per provare quanto meno a presentarmi alla partenza. Dopo un anno di sacrifici, non provarci nemmeno mi sarebbe sembrato un gesto codardo. Così ho cominciato una cura di antinfiammatori e ho ripreso a correre con un tutore. E sono partito, con un po' di preoccupazione ma con la consapevolezza di aver fatto veramente il possibile e di essermi impegnato al massimo.
Come hai vissuto gli ultimi momenti prima della gara?
Sono stati momenti molto intensi. La sera prima ho cenato in un ristorante italiano e ricordo che, mangiando quei due primi, pensavo fra me e me, "speriamo che domani mi diate una mano anche voi". La notte per la tensione non ho dormito nulla. E mentre aspettavo il pullman, che è venuto a prendermi alle 4:30, e mi guardavo allo specchio, tutto imbacuccato, con la colazione nel mio sacchettino trasparente, mi facevo un po' tenerezza e pensavo "guarda te, a 62 anni e mezzo cosa mi ritrovo a fare". Poi c'è stata l'attesa lunga e snervante prima della partenza: più di tre ore e mezza seduto in un pianoro aspettando il mio turno. Quando finalmente dai microfoni ci hanno invitati a raggiungere il via, lì mi è salita alla grande l'adrenalina. Fermo, in attesa del colpo di cannone sul ponte di Verazzano, mi sono venute in mente tante cose e, fra tutte, una sensazione particolare: in quel momento mi sono reso conto di essere in mezzo a 53.000 persone ma, in fondo, di essere solo.
Come hai vissuto la maratona?
Alla partenza, la mia preoccupazione principale era di non intralciare nessuno poi, dopo un paio di chilometri ho cominciato a fare la mia andatura, concentrandomi sulle dinamiche della corsa. I ristori, l'alimentazione, l'idratazione. Tenevo il mio ritmo ma ero sempre un po' preoccupato per il ginocchio, un timore che, comprensibilmente, mi ha accompagnato per tutta la gara. Cercavo di rimanere concentrato e mi ripetevo sempre come un mantra, "se faccio così, c'è la posso fare" senza pensare alla distanza, né ad altro. Mi ha aiutato anche l'entusiasmo della folla che per tutto il percorso mi ha accompagnato. In realtà, il fulcro di questa manifestazione non è tanto la corsa, è tutto lo spettacolo che c'è intorno, con tante persone diverse che ti incitano, che ti sostengono, con i cartelli in mano, che ti chiedono di battere il cinque, con la musica: tutto questo ti dà un'energia incredibile.
Quindi è andato tutto bene?
Beh, non proprio. Nel Bronx, a 7 km dall'arrivo, mi sono presi i crampi, e lì ho veramente temuto di dovermi fermare perché non riuscivo a fare neanche un passo. Mi sono appoggiato alle transenne e ho cominciato a fare stretching. Poi, mi sono rivolto ai miei santi in paradiso, ho pensato a mia madre e ho ripreso piano piano a camminare. Mi commuovo a ripensarci, ma la maratona di New York è questo: è un contrasto di emozioni e commozioni, difficile da spiegare. Giunto a Central Park, mi sono di nuovo presi i crampi, ma ormai mancavano solo 3 km, non potevo abbandonare, così ho proseguito e, negli ultimi 300 metri, ho dato tutto quel poco che mi era rimasto. Di fatto credo di essere riuscito a terminare la gara più per la testa che per il fisico. Poi, quando ho tagliato la linea del traguardo mi è capitata una cosa strana: non mi interessava più nulla della corsa, volevo solo tornare a casa. Ho cercato mia moglie, che ero riuscito a intravedere un paio di volte lungo il percorso, e con la mia medaglia al collo e 5200 calorie in meno sono tornato in albergo.
Adesso che è tutto finito, che effetto ti fa ripensare a questa esperienza?
È stata un'esperienza unica. Il giorno dopo la maratona camminavo per Manhattan con la mia medaglia al collo, come tradizione vuole, e tantissimi newyorkesi mi venivano incontro e si congratulavano con me. Lì ho realmente realizzato l'importanza di questa manifestazione per la città e i suoi abitanti. Una consapevolezza che durante la corsa, forse per la preoccupazione, non avevo avuto. Adesso non ho ancora ripreso a correre perché devo rimettermi un po' in sesto, ma non vedo l'ora di ricominciare.
Cosa consigli a chi sta pensando di fare questa esperienza?
Se avete questo sogno, non fermatevi, ne vale veramente la pena! Se ce la farete, allora vi consiglio di godervela in pieno, senza troppe preoccupazioni perché è un'esperienza fortissima. E se invece, per qualsiasi ragione, non ce la farete, andrà bene lo stesso, perché ci avrete provato.
Adesso starai tranquillo per un po'?
Ho già deciso la mia prossima sfida: ho messo nel mirino il giro delle Dolomiti in bicicletta. Mio figlio l'ha fatto l'anno scorso e me ne ha parlato in termini talmente entusiastici che ho detto "vabbè, se il Padre Eterno mi dà la salute, lo farò anch'io".