Scenari
Geopolitica

2026, l’anno degli egoismi internazionali. È la fine di molte illusioni

La frammentazione resta il nodo centrale: il sistema internazionale non è più multilaterale ma non è ancora stabilmente multipolare. La politica estera “transazionale" degli Stati Uniti, la resilienza della Cina e l’inizio di un cambio d’epoca per l’Europa. Le riflessioni degli analisti dell’ISPI nella nuova rubrica Il Punto di Paolo Magri
2026, l’anno degli egoismi internazionali. È la fine di molte illusioni
Il porto merci di Qingdao, nella provincia cinese di Shandong (Photo AFP via Getty Images)
17 Dec 25
#geopolitica
Paolo Magri
Paolo Magri

Questa è la quarta puntata della rubrica Insights - Il punto di Paolo Magri, un'analisi a firma degli analisti dell’ISPI, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di cui Magri è presidente del comitato scientifico. Qui puoi rileggere la puntata precedente. Il pezzo è co-firmato da Filippo Fasulo. Buona lettura.

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Ognuno per sé. È questo, in estrema sintesi, il modo in cui si svilupperanno i rapporti internazionali nel 2026, insieme a una progressiva erosione della fiducia nelle norme condivise. Il principale artefice di questa dinamica sono gli Stati Uniti di Donald Trump, capaci in pochi mesi di scuotere equilibri che sembravano consolidati e di mettere in discussione persino le relazioni transatlantiche. La frammentazione resta il nodo centrale: il sistema internazionale non è più davvero multilaterale, ma non è ancora stabilmente multipolare. Prevale una competizione diffusa, fondata su approcci transazionali, accordi contingenti e interessi immediati. In questo contesto, Stati Uniti, Cina ed Europa condividono una bussola comune – la sicurezza, militare ma soprattutto tecnologica, industriale ed energetica – ma la declinano in modo profondamente diverso.

Dopo il tentativo dell’amministrazione Biden di ricostruire una rete di alleanze per contenere Cina e Russia, il ritorno di Trump ha ridefinito il quadro. L’approccio transazionale, già noto, si applica senza distinzioni a rivali e alleati. La retorica della Casa Bianca ruota attorno al riequilibrio della bilancia commerciale e alla riduzione dei costi della leadership globale. L’obiettivo non è più plasmare l’ordine internazionale, ma trarne vantaggi immediati, politici ed economici. Ne deriva una politica estera selettiva, che delega responsabilità e condiziona il sostegno. Il dossier ucraino è emblematico: il conflitto si è rivelato più complesso delle promesse elettorali e Washington tenta di forzare Kiev verso concessioni a Mosca. Un cessate il fuoco offrirebbe ritorni economici – dalle terre rare agli investimenti legati ai fondi russi congelati – e, in prospettiva, l’opportunità di indebolire l’asse Mosca-Pechino. In questo schema si inserisce anche la pressione sull’Europa: come emerso al vertice NATO dell’Aia, il sostegno americano sarà sempre più subordinato a una maggiore spesa europea per la difesa e alla costruzione di un pilastro europeo dell’Alleanza, più imposto che condiviso. La competizione con la Cina resta lo sfondo strutturale. Dopo la “weaponization” dei semiconduttori, Washington ha tentato una logica di scambio – tecnologia in cambio di terre rare – accolta con freddezza da Pechino. Anche l’autorizzazione a Nvidia per la vendita di un chip depotenziato è stata letta come un segnale tardivo e marginale. Il messaggio è chiaro: la Cina ritiene di non dover accettare vincoli unilaterali.

L’idea di una Cina “domata” dalle politiche di Trump si scontra con i fatti. Pechino ha mostrato una resilienza superiore alle aspettative, pur rivelando le contraddizioni di un modello sbilanciato. L’industria registra un surplus commerciale record, frutto di un’overcapacity strutturale che nel 2026 diventerà un tema centrale. Il rovescio della medaglia è la compressione di prezzi e margini, con gli esportatori cinesi che assorbono parte dei costi dei dazi statunitensi. Con l’avvio del 15° Piano Quinquennale nel 2026, Xi Jinping insiste sulla manifattura come leva per la competizione tecnologica con gli Stati Uniti, rinviando ancora le riforme orientate ai consumi. Una scelta che rischia di accentuare le chiusure difensive di molti mercati. Sul piano internazionale, Pechino evita posture apertamente aggressive. La Russia resta il partner strategico chiave e principale fornitore energetico, pur in una cornice di neutralità formale. Parallelamente, la Cina coltiva il rapporto con l’India. Taiwan rimane un dossier chiave per la stabilità regionale e potenzialmente fonte di tensioni, come testimonia il recente scontro tra Tokyo e Pechino. Nel 2026 la priorità non sarà la competizione militare, bensì la gestione dell’overcapacity e l’avanzamento in intelligenza artificiale, robotica e spazio. Per Trump e Xi il 2026 è anche un anno di verifiche interne. Negli Stati Uniti le elezioni di mid-term testeranno la sostenibilità dell’agenda trumpiana; in Cina lo sguardo è rivolto al Congresso del Partito del 2027.

L’Europa si avvicina al 2026 in una fase critica, che assume i tratti di un cambio d’epoca. Le diagnosi sulle vulnerabilità – energia, tecnologia, dipendenze strategiche – sono note, ma restano in larga parte inattuate. Il Piano Draghi sulla competitività ne è il simbolo. Sul fronte ucraino, l’UE continua a sostenere Kiev secondo la logica della “strategia del porcospino”, ma resta marginale nei negoziati. La frammentazione interna, in assenza di una volontà politica condivisa, rischia di relegare l’Europa a un ruolo secondario, una dinamica non contrastata, se non incoraggiata, dalla presidenza Trump, che adotta una logica di divide et impera. Uno degli interrogativi principali per l’anno a venire riguarderà il ruolo dei principali attori europei, in primis di Germania e Francia. Il piano di riarmo europeo è stato sposato con fermezza da Berlino, che si propone come il principale hub continentale cercando di compensare la crisi del settore dell’automotive e rischiando di centralizzare eccessivamente a livello nazionale un processo che dovrebbe essere condotto a livello comunitario. Per Parigi si tratterà invece di un anno fondamentale sul piano politico sia per testare la tenuta del governo Lecornu che in vista delle presidenziali del 2027. Infine, nel 2026 la sicurezza economica sarà un pilastro dell’azione europea: cautela verso Stati Uniti e Cina, diversificazione delle catene del valore, rafforzamento dei partenariati. Il vero salto di qualità sarà riconoscere la necessità di pensare strategicamente a sé stessi. Non per chiudersi, ma per contare. 

Insomma, il 2026 segna la fine di molte illusioni. La globalizzazione non scompare, ma diventa meno prevedibile. Gli Stati Uniti proseguiranno l’agenda America First, la Cina cercherà di gestire le proprie fragilità interne puntando sull’innovazione, l’Europa tenterà di emergere tra vincoli esterni e divisioni interne. In un mondo senza garanti dell’ordine, la geopolitica diventa una variabile centrale anche per imprese e investitori. Non è più lo sfondo: è il palco. E la regola resta immutata: chi non sceglie, sarà 
 

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