Verso il 2080: il messaggio di Arnaldo Pomodoro
Tra le opere più enigmatiche e simboliche di Arnaldo Pomodoro, Verso il 2080 (messaggio) rappresenta un punto di incontro tra forma, materia e visione del futuro. La scultura, custodita nelle collezioni del gruppo Sella, è realizzata in bronzo con patina ramata, ha dimensioni contenute (circa 18 × 26 × 21 cm) e si presenta come un blocco metallico appuntito e compatto. Le sue superfici esterne, lisce e lucide, sono attraversate da profonde spaccature da cui emergono strutture complesse: ingranaggi, circuiti, architetture in miniatura. Commissionata dal Banco di Roma per celebrare il centenario della sua fondazione nel 1980, l’opera fu replicata in 100 esemplari numerati e firmati. Ma non si tratta di una semplice scultura celebrativa: è un messaggio cifrato, un frammento di futuro immaginato, un ponte tra il tempo dell’artista e quello che ancora ci attende. Pomodoro ha sempre lavorato sul confine tra superficie e profondità. Le sue celebri sfere, apparentemente perfette, si aprono in fenditure che rivelano ingranaggi, fratture, tensioni interne. Anche Verso il 2080 (messaggio) sembra parlarci di un mondo che si disvela lentamente, che si lascia intuire più che comprendere. È un’opera che invita a guardare oltre, a immaginare ciò che sarà, ma anche a riflettere su ciò che siamo. Dopo aver esplorato il significato profondo di Verso il 2080 (messaggio), è utile ripercorrere alcune tappe fondamentali della vita e della formazione dell’artista, per comprendere meglio l’origine del suo linguaggio scultoreo.
Nato a Morciano di Romagna nel 1926, Pomodoro si diplomò come geometra: «Avrei voluto fare l’architetto – confessa a Sandro Parmiggiani in un’intervista del 2006 - ma mio padre si ammalò e così decisi di accorciare gli studi e diventare geometra per assicurarmi subito uno stipendio». Lavorò inizialmente al Genio Civile, occupandosi della ricostruzione postbellica. Dopo i trasferimenti a Como e Milano, nel 1957 lasciò il Genio Civile e, grazie alla liquidazione, aprì con il fratello Giò Pomodoro, che divenne a sua volta artista di fama, uno studio a Milano, ove i due collaborarono per circa un decennio. Arnaldo sviluppò un’abilità come orafo, utilizzando una tecnica ancestrale appresa nella bottega di un artigiano a Pesaro: la fusione con l’osso di seppia. L’incontro con il vivace ambiente culturale milanese, le letture giovanili compiute già durante la guerra e il confronto con artisti affermati alimentarono la sua vocazione artistica. Tra le figure più influenti nella Milano di quegli anni spicca Lucio Fontana, pittore, ceramista e scultore argentino naturalizzato italiano, il quale – come racconta Antonia Mulas in un saggio del 2008– fu «il pifferaio magico che per qualche misteriosa forza trascinava i giovani artisti nella sua aura e comunicava loro fiducia, credibilità, sostegno […] dando loro la fiducia che tutto potesse accadere».
“Le forme perfette di Brâncuși mi hanno dato una tale emozione da provocare in me un desiderio di distruzione e così le ho immaginate come tarlate, corrose, scavate”
Nel 1959, Pomodoro compì il suo primo viaggio negli Stati Uniti, dove si confrontò con nuovi spazi e movimenti culturali. Un momento decisivo fu la visita alla sala dedicata allo scultore rumeno Constantin Brâncuși, al MoMA di New York. Come lui stesso racconta a Giulio Dalvit in un’intervista del 2013: «Il passaggio fondamentale è avvenuto nella saletta di Brancusi al MoMA di New York. È là che ho avuto una folgorazione: le forme perfette di Brâncuși mi hanno dato una tale emozione da provocare in me un desiderio di distruzione e così le ho immaginate come tarlate, corrose, scavate, per potere investigarne l’interno e scoprire la vitalità che vi è racchiusa. Mi è venuta quindi l’idea di inserire tutti i miei segni all’interno dei solidi della geometria, e cioè dentro un’immagine essenziale, pura, astratta».
E così, dagli altorilievi degli anni Cinquanta, creati come una sorta di nuova scrittura applicata alla scultura, Arnaldo Pomodoro negli anni Sessanta sviluppa il proprio lavoro dedicandosi ai solidi geometrici tridimensionali, in una continua ricerca sulla contrapposizione formale tra perfezione della forma esterna, lucida e compatta, e l’elaborata, caotica e profonda complessità dell’interno.
L’opera che segna il passaggio fondamentale alla grande dimensione fu realizzata da Arnaldo Pomodoro nel 1962. Si tratta della Colonna del viaggiatore, concepita come evoluzione di un lavoro precedente e alta circa sei metri. Nacque in un contesto straordinario: l’invito di Giovanni Carandente a partecipare alla celebre mostra Sculture nella città, organizzata a Spoleto durante il Festival dei Due Mondi. In quell’occasione, scultori italiani e stranieri furono chiamati a confrontarsi con lo spazio urbano e con i materiali dell’industria pesante. L’opera di Pomodoro venne realizza presso gli stabilimenti Italsider di Lovere, in provincia di Bergamo, un luogo dove solitamente si forgiavano ruote ferroviarie ed eliche per navi da crociera. In questo scenario industriale, la Colonna prese forma: fu fusa in sezioni distinte, poi saldate con precisione per dare vita a un unico corpo scultoreo. Il dialogo tra creatività e tecnica, tra arte e industria rese l’esperienza intensa e coinvolgente non solo per gli scultori, ma anche per gli operai e i tecnici dell’Italsider, resi partecipi di queste nuove realizzazioni artistiche.
Nel 1966, Arnaldo Pomodoro ricevette l’incarico di rappresentare l’arte e la poesia nel Padiglione italiano all’Expo di Montréal, che si sarebbe tenuta l’anno successivo. Da questa commissione nacque una delle sue opere più emblematiche: una grande sfera di tre metri e mezzo di diametro, concepita come simbolo di dialogo tra arte, architettura e visione del futuro. Come ha osservato Angela Vettese in un saggio del 2008, la scultura stabiliva un sorprendente parallelo con la cupola geodesica di Buckminster Fuller – figura poliedrica dell’innovazione americana, inventore, architetto, designer e pensatore. La sfera di Pomodoro e la cupola di Fuller sembravano l’esito di una decisione presa a distanza, in un tempo in cui le distanze erano ancora tangibili. Entrambi riscoprivano la forma sferica come archetipo da reinterpretare: luogo di abitazione per l’architettura, forma primaria per la scultura. Dopo l’Expo, l’opera fu collocata a Roma, nel piazzale antistante la Farnesina, sede del Ministero degli Esteri, su iniziativa del ministro Amintore Fanfani. Fu la prima di una lunga serie di installazioni pubbliche che portarono Pomodoro a disseminare le sue sculture in piazze, giardini e spazi urbani in tutto il mondo. Attraverso queste opere, l’artista ha dato forma a una convinzione profonda: l’arte deve uscire dai luoghi chiusi e diventare parte integrante del paesaggio urbano, contribuendo a renderlo più umano, condiviso, vivo. La scultura all’aperto diventa così strumento di dialogo collettivo, capace di trasformare lo spazio pubblico in esperienza estetica e culturale.
“Penso che la forza dell'arte dipenda dalla capacità di interpretare e sintetizzare il proprio tempo”
Penso che la forza dell'arte dipenda dalla capacità di interpretare e sintetizzare il proprio tempo – confessa Arnaldo Pomodoro in una conversazione con Ivana Riggi - e, a volte, persino, di anticiparne le tensioni e le dinamiche. Sono molto sensibile alla responsabilità artistica che, secondo me, ha un carattere etico: esprime non solo un autore e uno stile suo proprio, ma anche i motivi della civiltà in cui viviamo.»
Osservando oggi l’opera Verso il 2080 (messaggio), sentiamo di custodire non solo un oggetto d’arte, ma un pensiero, una visione. Pomodoro non scolpiva solo il bronzo: scolpiva il tempo, la memoria, l’utopia. E le sue opere restano come una bussola silenziosa, a ricordarci che l’arte può ancora indicarci una direzione, anche quando il suo autore non è più tra noi.