La centralità dei luoghi. Così l'ombra dell’incertezza globale passa dagli snodi strategici
Questa è la terza puntata della nuova rubrica Insights - Il punto di Paolo Magri, un'analisi a firma degli analisti dell’ISPI, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di cui Magri è presidente del comitato scientifico. Qui puoi rileggere la puntata precedente. Il pezzo è co-firmato da Filippo Fasulo. Buona lettura.
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Mentre l’attenzione del mondo è rivolta soprattutto alle imprevedibili decisioni di Trump sul commercio, è sempre più importante capire quali sono gli stretti strategici dell’interscambio marittimo. Questi snodi rappresentano punti cruciali per le catene d’approvvigionamento globali di beni, energia e materie prime – basti pensare che il 90% del commercio globale in termini di volume passa da questi stretti – e condizionano le scelte geopolitiche e geoeconomiche.
Gli snodi marittimi
Proprio per la loro natura strategica, gli snodi marittimi globali si confermano protagonisti silenziosi ma significativi delle dinamiche internazionali. Il Canale di Suez ne è un esempio emblematico. Nel 2023, mentre il Medio Oriente veniva stravolto dalle tensioni a seguito degli attacchi del 7 ottobre e della successiva offensiva israeliana su Gaza, le acque del Mar Rosso diventavano teatro di crescenti attacchi alle navi commerciali da parte degli Houthi yemeniti. Un'escalation che ha avuto ricadute immediate sul traffico marittimo globale: circa il 12% del commercio mondiale – inclusi l’11% del petrolio e l’8% del gas naturale liquido – transita attraverso quel corridoio. L’insicurezza crescente ha costretto molte compagnie a deviare le rotte verso il Capo di Buona Speranza, con un inevitabile aumento dei costi e dei tempi di percorrenza. Ma Suez non è un caso isolato. Anche il Canale di Panama è tornato sotto i riflettori, questa volta nel contesto della rinnovata competizione tra Stati Uniti e Cina. Il canale che collega Atlantico e Pacifico è da anni al centro della strategia cinese di espansione commerciale. Non a caso, Panama è stato nel 2018 il primo paese dell’America Latina a aderire alla strategia cinese di rilancio della globalizzazione incentrata sulle infrastrutture denominata Belt and Road Initiative (BRI). Attraverso investimenti in società di logistica e terminal portuali – tra cui quelli gestiti da Hutchison Port Holdings (HPH) di Hong Kong – la presenza cinese nella regione è cresciuta in modo costante, attirando l’attenzione di Washington. L’insediamento di Trump alla Casa Bianca ha riportato l’attenzione sul tema. Se le dichiarazioni teatrali del presidente si sono spinte fino alla minaccia di conquista militare, le decisioni aziendali sono state più concrete. A inizio 2025 il fondo statunitense BlackRock, insieme al gruppo italo-svizzero MSC, ha annunciato un accordo per l’acquisizione dei porti panamensi di Balboa e Cristóbal, fino ad allora gestiti da HPH. Poco dopo, Panama ha comunicato il ritiro formale dalla BRI. Due decisioni che indicano un riequilibrio degli assetti nella regione e una crescente sensibilità geopolitica rispetto al controllo di questa infrastruttura chiave per gli scambi tra i due oceani. Infine, la stabilità dello stretto di Hormuz, rilevante nelle catene di approvvigionamento energetico, è la vittima collaterale del confronto militare tra Israele e Iran. Teheran, infatti, ha più volte minacciato la chiusura dello stretto, da cui transita circa il 22% del greggio globale, in caso di proseguimento del conflitto. Una misura estrema, di difficile attuazione per i costi elevati che colpirebbero anche l’economia dell'Iran: il 90% del suo export petrolifero è diretto verso la Cina, che da sola importa oltre un terzo del petrolio che passa da Hormuz. A rendere la minaccia credibile resta quindi più la sua forza simbolica che la sua effettiva praticabilità.
L’India e la nascita di IMEC
In un contesto in cui il controllo degli snodi logistici e infrastrutturali assume sempre più rilievo, anche l’India si muove per ritagliarsi un proprio ruolo. Forte di una traiettoria economica in crescita, Nuova Delhi cerca da tempo di consolidare la propria proiezione strategica lungo le rotte marittime dell’Oceano Indiano. Una postura che si traduce in un attivismo crescente sul piano infrastrutturale, commerciale e diplomatico. È così che nasce il progetto IMEC (India–Middle East–Europe Economic Corridor), presentato nel 2023 con il sostegno di Stati Uniti e Unione Europea e che vede un ruolo di primo piano anche dell’Italia attraverso il porto di Trieste. Il corridoio si propone come alternativa parziale alla BRI cinese, collegando i porti indiani a quelli mediorientali – in particolare negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita – per poi proseguire, via terra, verso i porti del Mediterraneo e da lì verso l’Europa continentale. Non si tratta solo di un’infrastruttura economica, ma di un progetto dal forte valore geopolitico, che punta a rafforzare la connettività tra economie affini, riducendo la dipendenza dalle rotte controllate o influenzate da attori rivali. Il corridoio IMEC rappresenta anche un segnale dell’evoluzione del ruolo dell’India nel contesto globale: da paese tradizionalmente non allineato a potenziale pivot di un nuovo ordine commerciale multilaterale. Tuttavia, i suoi contorni restano per ora più progettuali che operativi. La crisi in Medio Oriente e la crescente instabilità nel Mar Rosso hanno già sollevato interrogativi sulla resilienza di questa rotta alternativa, che attraversa aree a rischio sia sul piano politico che securitario. Per Nuova Delhi, la sfida sarà duplice: rafforzare il proprio ruolo senza cadere in una logica di schieramento rigido, e al tempo stesso consolidare infrastrutture e alleanze capaci di sostenere una presenza duratura in un contesto sempre più competitivo. In gioco non c’è solo il futuro di IMEC, ma anche il posizionamento dell’India come attore centrale in una geoeconomia in trasformazione.
Il valore della “ridondanza”
In un contesto segnato da instabilità crescente e da interdipendenze sempre più soggette a pressioni geopolitiche, le scelte delle imprese nella localizzazione delle catene del valore non possono affidarsi soltanto al criterio della minimizzazione dei costi. Gli shock sono onnipresenti e imprevedibili, e costringono gli operatori economici a mantenere attivi piani logistici alternativi per non farsi sorprendere dalle interruzioni degli snodi strategici. A questo riguardo, la “ridondanza” dei canali di vendita e di fornitura si impone come una condizione necessaria per garantire la tenuta delle catene globali del valore. Diversificare rotte, attori e infrastrutture non è solo una scelta tecnica, ma una risposta politica al rischio di paralisi sistemiche nei cosiddetti chokepoints, sempre più vulnerabili a crisi regionali, attacchi ibridi o decisioni unilaterali. In gioco non c’è solo la fluidità dei commerci, ma la capacità degli Stati di proteggere il proprio spazio economico in un mondo che ha sostituito l’efficienza con la resilienza come nuovo paradigma operativo.