Percorso 1 - Risparmio I concetti fondamentali, seconda parte: perchè risparmiare, i titoli di stato, lo spread
Perché investire?
La domanda sembra ovvia: perché mai dovremmo prenderci la briga di investire? Ci sono moltissimi aspetti dei quali bisogna tenere conto: il rischio, innanzitutto, ma anche le commissioni bancarie, le imposte sui rendimenti da capitale, che generalmente ammontano a circa il 26%, anche se per i titoli di stato è la metà. Tutto questo per far fronte a un'inflazione che raramente supera il 2%?
Sembra davvero che non ne valga la pena, ma non dovremmo essere così categorici. Ci sono almeno due resistenze (in psicologia ed economia li chiamano bias, cioè pregiudizi) che non ci aiutano a ragionare come si deve. Il primo è che siamo molto poco lungimiranti, l'altra è che la matematica dei tassi di interesse non è così intuitiva come fare un'addizione.
La nostra scarsa lungimiranza (o present bias, in inglese) fa sì che tendiamo a preoccuparci molto di più per le cose presenti che per quelle future. Spesso non dipende solo da noi: molti studi hanno documentato che chi si trova in condizioni economiche più difficili compie scelte meno lungimiranti, e le due crisi economiche degli ultimi dieci anni hanno avuto delle conseguenze importanti per moltissime famiglie. Questo però non vuol dire che dovremmo ignorare la scelta di investire i nostri risparmi (ma sempre con prudenza) quando sarà il momento.
A impedirci di ragionare lucidamente su queste decisioni c'entra anche la difficoltà a capire gli interessi. Un interesse dell'uno percento, per esempio, può sembrare una cosa misera. In realtà, però, la matematica delle operazioni che servono per capire i guadagni potenziali degli investimenti - che sono delle funzioni esponenziali - ci racconta una cosa diversa. Poniamo di investire mille euro in un titolo che garantisce un rendimento reale (cioè al netto dell'inflazione) pari al due percento annuo. Alla fine del primo anno, avremo guadagnato venti euro, ma che cosa succederebbe alla fine del secondo anno? Reinvestendo i venti euro guadagnati in quel titolo, avremo in totale 1044 e non 1040. Vi sembra poco? Probabilmente sì, ma guardiamo che cosa succede dopo venti anni: in tasca avremo 1460 euro, e dopo trentacinque ne avremo duemila.
Certo, sarà passato un sacco di tempo: ma dopo vent'anni avremo letteralmente raddoppiato i nostri risparmi senza fare nulla. Questo effetto si chiama interesse composto: reinvestendo gli interessi che abbiamo guadagnato, i nostri guadagni crescono esponenzialmente. Questo è il principio alla base degli investimenti e li rende un'attività proficua: non solo per i grandi fondi miliardari, ma anche per i privati cittadini che vogliono solo tutelare i propri risparmi dall'inflazione o assicurarsi una rendita complementare alla pensione. Anche con l'inflazione, infatti, si applica lo stesso ragionamento: dopo trentacinque anni, un tasso di inflazione del due percento dimezza il valore dei nostri risparmi iniziali.
Trentacinque anni sembrano un arco di tempo lungo, troppo lungo per iniziare ad occuparsene già ora. Sfortunatamente, però, è questa mentalità può comportare dei rischi, soprattutto quando ci troveremo in pensione. Le pensioni sono un tema delicato, ma quello che è certo è che l'assegno pensionistico non è uguale al nostro stipendio e potrebbe non essere sufficiente per permetterci lo stile di vita che vorremo mantenere. Per dirla in senso più economico anche la scelta di non investire ha un rischio: quello praticamente certo dovuto all'inflazione e il rischio di longevità.
Per assicurarsi contro il rischio longevità non bisogna assumersi grandi rischi. Dato che si tratta di un investimento su un orizzonte temporale molto lungo, anche di quarant'anni, possiamo accontentarci di rendimenti modesti. Come sappiamo, infatti, un rendimento più basso è associato a un rischio minore, e anche se tutti gli strumenti finanziari hanno un rischio, ce ne sono alcuni più sicuri di altri.
Le azioni, per esempio, offrono una rendita sotto forma della distribuzione dei rendimenti, ma cambiano spesso valore (si dice che sono volatili). I titoli di stato, al contrario, rendono meno ma sono quelli più sicuri, perché difficilmente uno stato va in bancarotta. Un buon investitore cerca di raggiungere un equilibrio, investendo sia in titoli relativamente più rischiosi che in quelli più sicuri: in altre parole, si dice che sta diversificando il suo portafoglio. Per fare fronte alle crisi, poi, si investe nei cosiddetti beni rifugio: si tratta di beni, materiali o immateriali, che hanno un valore praticamente stabile, come l'oro, o anche di titoli di stato o valute di paesi molto stabili (come i titoli tedeschi o il franco svizzero). Solitamente la domanda di questi beni aumenta molto in momenti di crisi e chi li detiene può venderli, guadagnandoci. Questa pratica finanziaria è nota come hedging.
I titoli di stato: quanto ci costano e come si vendono
La morale della favola è che qualunque piano di investimento comprenderà una quota più o meno grande di titoli di stato, per ridurre i rischi. I titoli di stato, per essere tali, devono avere un rischio molto basso, ma questo non significa che il loro valore non possa variare, specialmente quando i governi sono instabili. Anche se le possibilità che uno stato fallisca sono di solito davvero basse, questo significa che la spesa per interessi dello stato, finanziata attraverso la raccolta delle tasse, diventa più onerosa.
Guardiamo ai conti del nostro paese, che possiamo consultare tramite OpenBDAP, la banca dati della pubblica amministrazione. Nel 2020, il governo italiano ha sostenuto spese per quasi 900 miliardi di euro, ma di questi solo poco più di 500 sono derivati dalla raccolta delle tasse. La parte restante è stata finanziata a debito emettendo titoli. La spesa per interessi (detti interessi passivi, perché sono quelli che si pagano) ammontava a 71 miliardi di euro: per fare un confronto, la spesa per istruzione scolastica e universitaria è stata di 59 miliardi. Ma come vengono stabiliti questi rendimenti?
Ogni mese, il ministero delle Finanze indice un'asta per tante tipologie di obbligazioni. Sono di tanti tipi perché hanno delle durate diverse, che vanno dai tre mesi per i Buoni ordinari del tesoro (BOT) ai 50 anni dei Buoni del tesoro poliennali (BTP). Assieme alla durata, variano anche i tassi di interesse: quasi sempre più la scadenza è lunga e più il rendimento è alto.
Il Ministero decide quanti titoli vorrà piazzare, ma non il prezzo, che viene deciso tramite il meccanismo d'asta. In poche parole, chiunque voglia comprare titoli deve acquistare un minimo di 1000 euro, specificando la sua offerta. I titoli sono assegnati a chi offre di più, finché non sono esauriti. Questa compravendita avviene nel cosiddetto mercato primario.
Partendo dal prezzo di acquisto si calcola il rendimento del titolo, un po' come si fa con i prestiti. Semplificando, un'obbligazione con scadenza a un anno è un contratto che dice «tra un anno lo Stato restituirà mille euro» e gli investitori fanno un'offerta indicando a quanto lo vogliono comprare, ad esempio a 990 euro e cioè con un rendimento leggermente superiore all'1 per cento. In altre parole, più l'interesse è alto e più il prezzo del titolo è basso.
E lo spread?
Solitamente, per farsi un'idea della stabilità dei paesi si guarda al famigerato spread. Ha davvero il potere di far cadere i governi? No, ma visto che si tratta di un indicatore rilevante, è importante capirlo per bene.
Lo spread è semplicemente la differenza tra i rendimenti dei titoli di stato di due paesi diversi. Viene misurata in punti base (pb) e 1 pb è pari allo 0,01 per cento: quindi, uno spread di 120 punti indica una differenza tra i rendimenti pari all'1,2%. Dato che il rendimento è un indicatore della fiducia degli investitori, lo spread ci aiuta a misurare come cambia la percezione del rischio di investire in titoli di stato in due paesi diversi.
Insomma, esistono moltissimi spread, ma attenzione: solo alcuni hanno davvero senso. Paragonare il rendimento tra i BOT a sei mesi con i titoli brasiliani a trent'anni non ci dice molto se non ci facciamo le domande giuste. Per questo si confronta l'Italia con altri paesi europei e in particolare con la Germania, che è il paese più stabile. Più raramente, si fanno confronti con la Spagna o la Grecia, per capire come i paesi più colpiti dalle crisi stanno recuperando. Spesso si paragonano i rendimenti dei titoli a dieci anni, per capire se ci sono eventi con conseguenze così importanti oggi da poter cambiare la traiettoria di un paese per molti anni a venire.
I più attenti, però, avranno notato un'incongruenza. Visto che vengono stabiliti tramite un'asta, i rendimenti restano fissi: allora come mai lo spread cambia di giorno in giorno, anzi addirittura nell'arco di pochi minuti? Come molti beni, sia le azioni che le obbligazioni possono essere cedute ad altre persone. In altre parole, chiunque abbia un titolo di stato può rivenderlo in quello che si chiama mercato secondario. Non c'è limite a quante volte si può rivendere un titolo e i prezzi di acquisto cambiano spesso: i più avversi al rischio cercheranno di liberarsi dei titoli, magari anche al costo di rivenderli a un prezzo più basso di quello a cui lo avevano acquistato.
Insomma, lo spread non è un effetto, ma una misura di come certi eventi influenzano la percezione del rischio di prestare soldi a un paese. Gli stessi effetti che causano un aumento dello spread non sono catastrofici come capita di sentire in giro, ma non per questo sono meno preoccupanti. Un aumento dello spread indica che anche gli interessi dei titoli emessi sul mercato primario saliranno: anche se sono numeri piccoli, spesso si traducono in cifre vicine ai miliardi di euro. Inoltre, queste variazioni si trasmettono anche agli altri prestiti, secondo lo stesso meccanismo che sfrutta la politica monetaria della banca centrale: in altre parole, un conto più salato per le famiglie e le aziende, che in momenti di crisi diventano più difficili da sostenere.