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Quando il codice imparò a pensare: alle radici dell’Intelligenza Artificiale

Le macchine possono pensare? A 75 anni dalla pubblicazione dell’articolo sul “gioco dell’imitazione”, la sfida di Alan Turing è più attuale che mai. Vi è infatti una storia che unisce l’origine e il futuro dell’intelligenza artificiale, a cominciare dall’apparecchio simbolo di un’epoca del quale l’Archivio Storico gruppo Sella custodisce un esemplare: la macchina ENIGMA
Appunti d'Archivio | Quando il codice imparò a pensare: alle radici dell’Intelligenza Artificiale
Un dettaglio della statua di Alan Turing al Sackville Park Manchester (Photo by Christopher Furlong/Getty Images)
28 Nov 25
#heritage

Nel 2025 ricorrono i 75 anni dalla pubblicazione di Computing Machinery and Intelligence , l’articolo con cui Alan Turing pose una delle domande più provocatorie del Novecento: le macchine possono pensare? In quelle pagine, Turing non solo ri-formulava il celebre “gioco dell’imitazione” — un esperimento mentale in cui un osservatore deve stabilire, attraverso una conversazione scritta, se il suo interlocutore sia un essere umano o una macchina — ma gettava anche le basi teoriche di ciò che di lì a un decennio sarà chiamato intelligenza artificiale. Più che cercare una definizione di intelligenza, Turing proponeva un criterio operativo per riconoscerla, anticipando un futuro in cui le macchine sarebbero state in grado di simulare il pensiero umano.
Quell’intuizione, tuttavia, affondava le radici in un’esperienza precedente e cruciale. Solo pochi anni prima infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale, Turing era stato protagonista di una delle imprese più decisive del conflitto: la decifrazione della macchina ENIGMA, cioè dell’apparecchiatura utilizzata dalle forze armate tedesche per cifrare i messaggi militari. A Bletchley Park, località a nord-ovest di Londra sede della principale unità di crittoanalisi del Regno Unito, Turing contribuì allo sviluppo di dispositivi elettromeccanici – le cosiddette “bombe” – capaci di esplorare milioni di combinazioni, ponendo le fondamenta di ciò che oggi chiamiamo calcolo automatico.

L’Archivio Storico del gruppo Sella conserva un raro e prezioso esemplare civile pre-bellico di macchina ENIGMA, testimonianza di quella stagione di straordinaria innovazione. È un oggetto che non solo racconta una pagina cruciale della storia europea, ma che ci collega direttamente all’origine di una rivoluzione scientifica e culturale ancora in corso.
ENIGMA non fu solo una macchina per cifrare messaggi: divenne anche la scintilla che accese una nuova era. Infatti, lo sforzo compiuto per decifrarla richiese la costruzione di quelle “bombe” logiche che, antesignane dei moderni computer, rappresentano una delle prime applicazioni pratiche della formidabile capacità computazionale delle macchine. Così, da un apparecchio progettato per nascondere messaggi, nacque l’idea di una macchina capace di comprenderli: in sostanza, di una macchina capace non solo di calcolare, ma di simulare il pensiero. Di comportarsi cioè come se la macchina pensasse. 

Ed è proprio questa intuizione che Alan Turing svilupperà nel suo saggio del 1950. Egli propose in realtà una sfida intellettuale, una sorta di gioco filosofico per esplorare i confini dell’intelligenza. Il suo “Imitation Game” non era pensato per essere applicato nella vita quotidiana, bensì per affrontare una domanda radicale: Le macchine possono pensare? Nell’articolo Computing Machinery and Intelligence, Turing suggeriva di sostituire questa domanda con una più concreta: invece di chiedersi se le macchine possano pensare, egli propone di considerare un altro interrogativo, e cioè se le macchine possano giocare al gioco dell’imitazione. E in un passaggio successivo precisa la questione, chiedendosi se sia possibile che computer digitali con adeguata memoria, in grado di aumentare la loro velocità di azione e adeguatamente programmati, possano ingannare l’interrogante comportandosi come un essere umano.
Oggi, a settantacinque anni di distanza, quella sfida è diventata realtà. Ogni volta che interagiamo con un assistente virtuale, un chatbot, un sistema di risposta automatica, ci troviamo — spesso inconsapevolmente — a giocare al gioco proposto da Turing. Ci chiediamo: sto parlando con una persona o con una macchina? E la risposta non è più così ovvia.
La realtà ha raggiunto — o forse sarebbe meglio dire inseguito — l’immaginario di Turing. Le sue intuizioni non solo hanno anticipato il futuro, ma lo hanno anche in qualche maniera plasmato. L’idea che una macchina possa simulare il linguaggio umano ha influenzato decenni di ricerca, fino all’attuale esplosione dell’intelligenza artificiale generativa.
Ma c’è un aspetto spesso trascurato del test di Turing: il giudizio finale sull’esito della sfida non spetta alla macchina, bensì all’essere umano. Nel “gioco dell’imitazione” è il giudice umano, la persona, che decide se l’interlocutore è “intelligente”. Il test, in fondo, misura la nostra percezione, la nostra soggettività, la capacità di riconoscere — o proiettare — l’intelligenza.

Turing scriveva infatti, a proposito dell’interlocuzione, che il metodo domanda e risposta sembra adatto per introdurre quasi tutti i campi dell’attività umana che desideriamo includere. 
Ed è proprio qui che si apre una prospettiva per il futuro: un futuro in cui la relazione tra uomo e macchina non sarà più di opposizione, ma di collaborazione. Un futuro in cui il linguaggio diventa ponte, non barriera. Dove l’intelligenza artificiale non sostituisce, ma amplifica. Dove la chiave non è solo la potenza computazionale, ma la qualità dell’interazione.
Turing concludeva il suo saggio con una visione educativa e relazionale, affermando come fosse meglio fornire alla macchina i migliori organi di senso che il denaro possa comprare, e poi insegnarle a comprendere e parlare l’inglese. In sostanza, un processo di apprendimento come quello applicato nell’insegnamento normale seguito da un bambino.
La sfida di Turing non è solo una prova per le macchine. È una prova per noi: una misura della nostra apertura, della nostra capacità di dialogo e della volontà di costruire insieme — utilizzando e collaborando con le nuove potenzialità delle macchine — un nuovo modo di pensare, comunicare, lavorare.

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