Percorso 4 Finanza sostenibile - Cos'è la finanza sostenibile?
Per secoli, persone e istituzioni hanno investito il proprio denaro con un unico scopo: aumentare la propria ricchezza nel tempo. Investire significa infatti rinunciare a parte dei soldi di cui disponiamo in questo momento nel tentativo di ottenerne di più in futuro. Che sia nella forma di un prestito o della partecipazione a un'impresa (attraverso la sottoscrizione di sue azioni, per esempio), la sostanza dell'operazione non cambia: ci priviamo di denaro che al momento non ci serve per finanziare qualcuno che invece ne ha bisogno e non ne ha abbastanza. Dandogli i nostri soldi, corriamo il rischio di non rivederli più, e per questo ci aspettiamo che l'operazione ci faccia guadagnare un rendimento proporzionale a questo rischio.
Rendimento atteso e rischio sono perciò le uniche due variabili di cui la maggior parte degli investitori si sia storicamente preoccupata per decidere se un determinato investimento valesse o meno la pena di essere fatto (ciascuna delle due è influenzata da innumerevoli fattori, e ogni investitore dovrebbe assicurarsi di averle stimate entrambe con la miglior approssimazione possibile prima di decidere).
Negli ultimi anni però, oltre a rischio e rendimento, sempre più persone e istituzioni hanno cominciato a includere nelle proprie decisioni d'investimento variabili che possiamo chiamare etiche, cioè variabili che indicano se l'impiego dei soldi investiti sia in linea o meno con ciò che l'investitore reputa giusto. Questa pratica prende il nome di ethical investing, investimento etico, ma viene indicata con diversi sinonimi (anche se non tutti davvero equivalenti), tra cui sustainable investing, investimento sostenibile, e socially responsible investing, investimento socialmente responsabile o SRI, nel tempo diventata la dicitura più diffusa.
Cosa sono esattamente gli investimenti SRI?
Con la sigla SRI si indicano in generale tutte quelle strategie d'investimento (cioè insiemi di regole per decidere in cosa investire e in cosa no) che ambiscono a generare, oltre al profitto, un cambiamento nei comportamenti delle imprese ritenuto auspicabile o addirittura necessario dall'investitore in base ai propri valori. Gli obiettivi etici perseguiti da tali strategie possono essere svariati: la lotta al cambiamento climatico (nel qual caso si parla spesso di green investment), l'assicurazione del rispetto dei diritti umani, la sicurezza sul lavoro, l'aumento della diversità all'interno delle aziende o la garanzia di pari opportunità a gruppi sociali diversi in termini di genere, etnia, orientamento sessuale o età.
Un investitore privato o istituzionale che usi una strategia SRI seleziona perciò i propri investimenti (che si stia parlando di azioni di singole società, quote di fondi comuni d'investimento o obbligazioni) tenendo conto sia del rapporto tra il rendimento atteso e il rischio, sia del loro allineamento ai valori in cui crede.
La teoria su cui si basano queste strategie per generare il cambiamento ambito è piuttosto semplice: negando capitale alle aziende che non aderiscano a certi standard (per esempio, che emettano più CO2 per unità di fatturato rispetto a una determinata soglia), si restringono le loro opzioni di finanziamento. Meno opzioni un'azienda ha per finanziarsi, più alto sarà il costo a cui potrà farlo. Se la strategia in questione viene messa in atto da un numero abbastanza alto di (grandi) investitori, il costo del capitale dell'azienda che non si impegna a ridurre le proprie emissioni salirà, mentre quello delle sue concorrenti più virtuose scenderà. Questo darà un vantaggio competitivo alle seconde, favorendone la permanenza sul mercato sul lungo periodo a scapito delle società che non si adeguino allo standard.
Quali sono le strategie SRI? Come funzionano?
Esistono vari tipi di strategie SRI, ma le più comuni sono due: il negative screening e l'integrazione ESG.
Negative screening
Questa strategia è la più antica (era praticata già nell'America del diciottesimo secolo dai quaccheri, ai quali era impedito di investire nella tratta degli schiavi per motivi religiosi) e la più semplice da attuare: consiste nell'escludere dalle proprie opzioni d'investimento società (o interi settori) che non soddisfino determinati criteri o che siano coinvolte in attività contrarie all'etica dell'investitore. Esempi di società spesso escluse attraverso questa tecnica sono le cosiddette sin stocks, azioni del peccato, cioè quelle di società coinvolte nella produzione di tabacco, alcolici, gioco d'azzardo o pornografia, alle quali si aggiungono frequentemente i produttori di armi, energia nucleare e combustibili fossili.
Il negative screening può essere messo in pratica da qualsiasi investitore che gestisca attivamente il proprio portafogli e abbia voglia e tempo di fare le ricerche necessarie sulle società in cui investe, ma esistono anche fondi comuni d'investimento e ETF (exchange-traded funds, fondi le cui quote sono scambiabili in borsa), sia azionari che obbligazionari, i quali applicano questa strategia offrendo portafogli diversificati che escludono automaticamente determinati tipi di società (come i fondi di green bonds, che investono in obbligazioni emesse appositamente per finanziare progetti con un impatto ambientale positivo, o quelli gun-free, che escludono i produttori di armi dal proprio portafogli).
Integrazione ESG
Questa strategia è più recente, ed è sempre più utilizzata dagli investitori professionali per offrire fondi comuni e ETF in grado di soddisfare la sempre maggiore domanda di investimenti "sostenibili", cresciuta ultimamente anche grazie all¿accesso al mercato degli investimenti da parte delle generazioni Millennial (i nati tra il 1981 e il 1996) e Z (i nati tra il 1997 e il 2012), due generazioni di investitori più sensibili ai problemi ambientali rispetto a quelle precedenti.
L'integrazione ESG consiste nell'integrare i propri criteri di selezione degli investimenti (solitamente riconducibili a misure economiche e finanziarie dell'impresa analizzata, come fatturato, costi, capitalizzazione, liquidità, indebitamento, ecc.) con criteri di sostenibilità ambientale, sociale e gestionale (la sigla ESG sta infatti per Environmental, Social and Governance).
Tra i criteri di sostenibilità ambientale rientrano le responsabilità che l'azienda ha nelle emissioni di gas serra e in altri tipi di inquinamento, nella deforestazione, nell'esaurimento delle risorse del pianeta e in altre attività che accelerino il cambiamento climatico. Tra quelli di sostenibilità sociale ci sono l'impatto dell'azienda sulla salute e la sicurezza delle persone, le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti, il modo in cui tratta i clienti e l'impatto che essa ha sulla comunità locale. I criteri di governance (cioè di gestione) comprendono infine la remunerazione dei dirigenti, la diversità all'interno del Consiglio di Amministrazione, la gestione del rischio, la trasparenza di operazioni fiscali, donazioni e lobbismo, nonché l'eventuale coinvolgimento in casi di corruzione.
Questa strategia è più sofisticata del negative screening, perché non esclude a priori alcuna società ma si basa sull'inclusione di criteri ESG nell'analisi dell'investimento con metodi che variano da gestore a gestore.
Il problema di questa strategia è che non esiste una definizione univoca di quali debbano essere i criteri ESG da prendere in considerazione: ogni investitore potrebbe volerne considerare alcuni e non altri, o dare pesi diversi a criteri diversi. Inoltre, uno stesso criterio può essere valutato usando diversi indicatori, e non esiste al momento uno standard da seguire nella valutazione, senza contare il fatto che molti di questi criteri (soprattutto quelli sociali) si basano su dati di difficile reperibilità o quantificabilità.
Per rendere la vita più facile ai gestori di fondi che vogliano usare strategie di integrazione ESG, sono nate diverse agenzie di rating che valutano le società quotate in base a criteri di sostenibilità e attribuiscono loro un punteggio ESG che dovrebbe dirci quanto l'azienda sia sostenibile. Tra le più importanti ci sono RepRisk, Sustainalytics, MSCI e ISS. Questo ha facilitato un po' il lavoro dei gestori di fondi, che possono così creare portafogli selezionando solo azioni con un certo tipo di rating ESG.
Il problema per l'investitore finale è che ognuna delle agenzie di rating ha il suo metodo di valutazione, perciò i rating emessi possono essere anche molto diversi tra loro: la stessa società può risultare virtuosa secondo un'agenzia e non sostenibile secondo un'altra, e di conseguenza essere inclusa in un fondo che si affidi al rating della prima ma esclusa da un altro che usi la seconda. Perciò diventa difficile comparare fra loro i fondi ESG, perché possono essere composti di aziende anche molto diverse fra loro. Inoltre, dal momento che il rating ESG è una sintesi di tutti i criteri considerati, si possono avere aziende molto carenti in una delle tre aree, che però mostrano un rating alto grazie ai loro punteggi nelle altre due. E se l'area in cui l'azienda è carente fosse proprio quella che ci sta più a cuore?
Insomma, se vogliamo essere sicuri che un fondo o un'azienda sia davvero sostenibile secondo i nostri standard, dovremo sempre andare a controllare che metodologia sia stata usata nella sua valutazione di sostenibilità.