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Percorso 1 - Risparmio Come risparmiamo, in Italia e in Europa

Percorso 1 - Risparmio Come risparmiamo, in Italia e in Europa
Risparmio, un percorso per Clienti Premium
03 Mar 21

Il risparmio, lo abbiamo detto più volte, è quello che resta del reddito disponibile (ossia al netto delle tasse) tolte le spese per i consumi. Risparmiare è una pratica antichissima e oggi diffusissima in tutti i paesi più ricchi e con le economie più avanzate. Differenze, però, ce ne sono: non in tutti i paesi si risparmia allo stesso modo, per motivi storici, culturali ed economici. Ci sono differenze nei livelli di risparmio tra diversi paesi europei, e differenze ancora più marcate se si confrontano le abitudini nella gestione della ricchezza tra paesi europei e Stati Uniti. Guardando i dati sul risparmio, queste differenze si notano e si notano però anche altre cose: per esempio che forse non è così fondata quell'idea per cui gli italiani sono un popolo di grandi risparmiatori. Per capire meglio la questione, però, bisogna partire dalle parole giuste da usare.

Un fraintendimento sul risparmio
Senza diventare troppo tecnici, c'è una precisazione molto importante da fare e che è all'origine di molti fraintendimenti su cosa sia il risparmio. Nel linguaggio comune, si dice spesso "risparmio" per indicare tutto ciò che una persona accumula nel corso della sua vita, o tutti i soldi che è riuscita a depositare sul suo conto in banca. Questo è tuttavia ciò che andrebbe più propriamente chiamata ricchezza: a cui contribuiscono i soldi sul nostro conto corrente insieme a tutti i nostri capitali investiti. Il risparmio, in senso molto stretto, sono solo i soldi che di mese in mese e di anno in anno riusciamo a non spendere: mettendoli assieme otteniamo la nostra ricchezza. Capire questa differenza serve per capire meglio i dati che vengono raccolti nel mondo sul risparmio e sulla ricchezza. Iniziamo a parlare di risparmio, poi arriveremo a parlare anche di ricchezza.

Chi risparmia di più?
Come molte delle cose in economia, anche il risparmio si può misurare in molti modi. Innanzitutto, quando si parla di risparmio di un paese ci si riferisce al risparmio lordo, che si calcola sottraendo la spesa nazionale per consumi dal reddito nazionale lordo, cioè la somma dei redditi di tutto un paese. Insomma, è come se considerassimo un paese come un'unica famiglia, con un reddito e delle spese: e il risparmio anche in questo caso non è "la ricchezza" di quel paese, ma solo ciò che in un certo periodo di tempo non è stato speso. 

Guardare a come risparmia un paese è un primo modo per capire qualcosa di più di quel paese, ma misurare il risparmio in termini assoluti non ci permetterebbe di fare confronti tra paesi diversi e tra anni diversi: banalmente perché la popolazione e i redditi cambiano. Due paesi con popolazioni molto diverse potrebbero avere risparmi lordi simili come conseguenza di situazioni molto diverse, per esempio diversi livelli di reddito medio tra i suoi abitanti. Per questo si è soliti dividere il risparmio lordo per il prodotto interno lordo (PIL) ottenendo il tasso di risparmio, una misura che può essere usata per fare paragoni tra paesi con economie diverse.
L'OCSE (l'Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica) mette a disposizione i dati sul tasso di risparmio di diversi paesi. A oggi, i dati sono disponibili fino al 2019, ma dicono alcune cose interessanti.

Guardando ai dati relativi ai paesi dell'Unione Europea, si nota immediatamente che l'Italia non sembra essere il paese di grandi risparmiatori che siamo abituati a credere. O almeno: non sembra esserlo più.

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Dal 1990 al 2000, infatti, il tasso di risparmio italiano ha avuto un andamento simile a quelli di Germania o Francia, ma negli ultimi dieci anni è stato decisamente più basso di quello tedesco e più basso di quello medio dell'Unione Europea e dei paesi dell'Eurozona. Nel 2007 il tasso di risparmio italiano era stato del 5 per cento, l'anno successivo era sceso al 2.3 per cento e quello dopo ancora è arrivato a zero. Da quel momento in poi l'Italia è sempre rimasta sotto la media dei paesi europei. Come detto però, sul tasso di risparmio di un paese incidono tante cose, dai redditi di quel paese alla sua spesa pubblica: e i dati mostrano che il tasso di risparmio italiano ha cominciato a calare dopo la crisi finanziaria cominciata nel 2008. 

Per le cose dette fin qui, tuttavia, l'andamento del tasso di risparmio non è sufficiente per capire come risparmiavano le persone: perché il tasso di risparmio misura la capacità di risparmio dell'intero paese, cioè sia delle famiglie che delle imprese e dello stato. In generale, quindi, possiamo dire che dal 2008 in poi è diminuita la capacità di risparmio dell'Italia, ma non necessariamente che sia diminuita la capacità di risparmio delle famiglie italiane.

Per fare un passo in avanti bisogna quindi guardare ad altro, per esempio al risparmio lordo delle famiglie, che misura la parte di reddito disponibile delle famiglie che non viene usata per i consumi. Il risparmio lordo è però un dato che presenta gli stessi problemi del risparmio lordo nazionale: è un dato assoluto e quindi non utile per confrontare le abitudini delle famiglie italiane con quelle di altri paesi (dove magari i risparmi assoluti sono molto alti solo perché sono molto alti gli stipendi medi). Quello che si guarda è quindi il tasso di risparmio lordo delle famiglie, un indice che si ottiene dividendo il risparmio lordo delle famiglie per il loro reddito disponibile e rappresenta la percentuale del reddito che le famiglie non spendono.

L'OCSE dispone di questi dati solo dal 1995, una serie storica relativamente breve ma sufficiente per capire qualcosa in più. I dati ci dicono che fino al 2008 le famiglie italiane hanno risparmiato più della media europea e che tra il 1995 e il 1997 il tasso di risparmio lordo delle famiglie era stato superiore anche a quello della Germania. Negli ultimi dodici anni, tuttavia, la capacità di risparmiare delle famiglie italiane si è notevolmente ridotta ed è ora inferiore anche a quella media dell'Unione Europea. È un andamento simile a quello registrato in Spagna, un altro paese che come l'Italia è stato colpito dalla crisi e dove di conseguenza i redditi disponibili delle famiglie sono diminuiti.

Si comprende ancora meglio cosa sia successo in Italia guardando il reddito disponibile pro capite delle famiglie che indica il reddito medio delle famiglie al netto delle tasse e che ha un diretto rapporto con la capacità di risparmiare. Da questo grafico - che confronta i redditi disponibili pro capite di diversi paesi che adottano l'euro - si vede chiaramente che fino al 2008 in Italia i redditi disponibili erano superiori a quelli della media e crescevano in linea con quelli degli altri paesi. Dopo il 2008, però, per diversi anni i redditi disponibili non crescono più e quando tornano ad aumentare non lo fanno abbastanza per recuperare il terreno perso: oggi l'Italia si trova persino al di sotto della media dell'UE.

Nel 2019 il reddito medio nell'area euro era di 36 mila dollari (poco meno di 30 mila euro), mentre quello italiano era di 33 mila dollari (meno di 28 mila euro): addirittura più basso di quello calcolato sull'intera Unione Europea, pari a 34 mila dollari (poco più di 28 mila euro). In Germania, nel 2019, il reddito medio pro capite era di 43 mila euro (quasi 36 mila euro), in Francia 38mila (31,5 mila euro): solo per citare due delle economie migliori tra quelle vicine a noi.

La crisi - possiamo concludere dopo una prima analisi - ha quindi contratto i redditi, costringendo i cittadini a ridurre i consumi e a risparmiare di meno. Questo ci aiuta in parte a spiegare come mai il tasso di risparmio (sia del paese, che delle famiglie) si sia ridotto così tanto.

E nel 2020 come è andata?
Così come la recessione del 2008 ha avuto delle conseguenze importanti, ci aspettiamo che anche la crisi prodotta dalla pandemia da coronavirus ne abbia. Ci vorrà ancora del tempo per avere dati completi sul 2020, ma Eurostat ha già pubblicato i dati trimestrali fino a settembre 2020.

Anche se i dati sono parziali, si vede bene come l'insicurezza dovuta alla pandemia si sia tradotta in un grosso aumento del tasso di risparmio lordo delle famiglie, imputabile probabilmente al grosso calo dei consumi legato ai lunghi periodi di lockdown attraversati da tutti i paesi. Per l'Italia, tra gennaio e giugno il tasso di risparmio è praticamente raddoppiato, fino a calare a poco meno del quattordici per cento nel terzo trimestre: e questo aumento non è comunque stato tra i più significativi a livello europeo, probabilmente perché l'Italia arrivava già da una situazione più complicata. Nel Regno Unito il tasso di risparmio è passato dal 9 al 27 per cento - una delle crescite maggiori. In Germania il tasso era già piuttosto alto prima della pandemia: dal 17 per cento si è saliti al 23 nel primo trimestre e sopra il 27 nel secondo, ma il valore è calato al 21 per cento nei tre mesi successivi.

Risparmio o ricchezza?
I dati sul risparmio suggeriscono quindi che, almeno a partire dal 2008, la capacità di risparmio di tutte le parti sociali in Italia sia diminuita. Lo stato ha continuato a spendere per sostenere l'economia (con risultati ampiamente dibattuti dagli esperti) mentre aziende e famiglie hanno visto ridursi il loro reddito.

C'è però dell'altro. Quando sentiamo dire che gli italiani "hanno un grande risparmio", chi parla non si sta quasi mai riferendo al risparmio inteso in senso economico ma a quello che dovrebbe essere più propriamente chiamato patrimonio (o ricchezza, dall'inglese wealth). La ricchezza, o ricchezza finanziaria, viene sostanzialmente intesa come ricchezza netta. In altre parole, la somma del valore dei propri asset, meno i debiti (in inglese si dice liabilities, che però non ha una traduzione letterale in italiano).

La ricchezza in Italia
La ricchezza può essere detenuta in molte forme, ma principalmente come ricchezza finanziaria (depositi e titoli, ma anche assicurazioni e quote di fondi pensione) e non finanziaria (immobili, oro, terreni). La Banca d'Italia e l'ISTAT studiano la composizione del patrimonio delle famiglie italiane, inteso sia come ricchezza finanziaria che non finanziaria, ma i dati completi sono disponibili solo dal 2005 al 2017

Nel 2017 il 59 per cento della ricchezza lorda degli italiani era non finanziaria: si tratta di quasi 6.300 miliardi di euro, di cui 5.250 solo di beni immobiliari (il 49.2 per cento di tutta la ricchezza). La ricchezza finanziaria era il restante 41 per cento, più di  4.370 miliardi di euro. 

La Banca d'Italia pubblica poi una dettagliata relazione annuale dell'economia italiana e dedica un capitolo alla ricchezza finanziaria delle famiglie. A maggio dello scorso anno è stata pubblicata quella relativa al 2019. Le attività finanziarie lorde ammontavano a oltre 4.445 miliardi di euro, mentre le passività (i debiti) a quasi mille miliardi. La ricchezza finanziaria netta detenuta dalle sole famiglie italiane era quindi di circa 3480 miliardi di euro (quasi il doppio del PIL prodotto in un anno), o quasi quattro volte il reddito disponibile (cioè quello che le famiglie guadagnano in un anno, al netto delle tasse).

Guardando solo alle attività finanziarie si vede che nel 2019 165 miliardi di euro erano detenuti sotto forma di banconote (il 3,7 per cento della ricchezza) e quasi 1300 miliardi di euro erano depositi bancari (il 29,1 per cento). In altre parole, quasi un terzo della ricchezza delle famiglie era detenuta sotto forma di depositi o circolante. A seguire, 1120 miliardi di euro erano detenuti sotto forma di assicurazioni (il 18,2 per cento), quote di fondi pensione o TFR (il 7,1 per cento), cioè in attività meno liquide (cioè meno rapidamente convertibili in denaro contante). A seguire, il 21,8 per cento - 966 miliardi - era investito in azioni, il 10,8 per cento - 480 miliardi - in quote di fondi comuni e solo il 6,1 per cento - 271 miliardi - in obbligazioni (il restante 3,2 per cento, o 143 miliardi, sono in altre attività).

Insomma, più del trenta per cento della ricchezza degli italiani è in depositi e contante, quasi il quaranta per cento in azioni, obbligazioni o quote di fondi pensione, e il venticinque per cento in assicurazioni o investimenti specifici per la pensione (TFR o quote di fondi pensione). Ma come andiamo rispetto agli altri paesi?

Un confronto con gli altri paesi OCSE
Per fare questo tipo di confronti, non basta semplicemente guardare ai dati assoluti. Ogni paese ha le sue peculiarità, che sono economiche, culturali, storiche e geografiche. Ad esempio, si sente spesso dire che per fattori culturali (ad esempio, il ricordo dell'iperinflazione durante gli anni della Repubblica di Weimar subito dopo la prima guerra mondiale) i tedeschi usano molto contante e fanno ricorso meno ad altri mezzi di pagamento. Ma anche senza arrivare a considerazioni così elaborate, per capire che differenze ci possano essere tra paesi basta pensare al fatto che negli Stati Uniti le spese per le assicurazioni sanitarie sono più alte che in Italia, così come quelle per l'educazione: e questo comporta gestire diversamente la propria ricchezza e i propri risparmi.
Tutte queste differenze sono da tenere a mente confrontando i vari paesi. Come dicono gli economisti, non si stanno confrontando «le mele con le mele»: i dati ci mostrano delle differenze ed è importante constatarle, ma le conclusioni che si possono trarre rischiano di essere affrettate e scorrette.

Cominciamo dai depositi: è vero che in Italia si detiene più che in altri paesi una gran parte della propria ricchezza in banca o in contanti? I dati OCSE ci dicono il contrario: tra i paesi dell'Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica, siamo esattamente nella media. Davanti a noi ci sono i tedeschi, che detengono quasi il quaranta per cento della ricchezza come depositi o contante.

I greci custodiscono quasi il sessanta per cento come depositi o contante: sono dei risparmiatori? Ecco un caso da manuale in cui le informazioni di contesto servono a non farsi portare fuori strada. Le ragioni per cui questa conclusione sarebbe fuorviante solo molte: ad esempio, la dura crisi economica e quindi la riduzione dei redditi ha probabilmente costretto i greci a disinvestire il loro patrimonio finanziario e detenerlo più come contante per far fronte alle emergenze della crisi. Non sarebbe corretto dire che i greci sono degli ottimi risparmiatori, quanto che per le condizioni economiche non possono permettersi di investire il loro risparmio.
Che cosa dire riguardo alle altre forme di ricchezza? Gli italiani non detengono una grande percentuale del loro patrimonio in titoli azionari, al contrario dei cittadini statunitensi, che detengono una parte più grande della loro ricchezza in qualsiasi tipo di strumento finanziario: azioni, quote di fondi comuni, obbligazioni e fondi pensione. Sotto questo punto di vista, gli Stati Uniti sono un po' il nostro opposto, ma non si può appiattire tutto alla dimensione cultura e capacità di risparmio. Il contesto istituzionale ed economico statunitense è molto diverso dal nostro e le loro abitudini riflettono anche esigenze diverse. 

Guardando altri dati vediamo che italiani e francesi, tra i paesi OCSE, sono quelli che investono una percentuale maggiore di ricchezza in polizze assicurative sulla vita (l'Italia il diciotto per cento, la Francia quasi il doppio). E possiamo notare che gli italiani si affidano per il loro futuro più alle assicurazioni che ai fondi pensione, a cui è destinato poco più del 6 per cento della ricchezza. Si tratta di forme di investimento meno liquide delle quote dei fondi comuni, per esempio, che comunque gli italiani detengono in proporzioni sopra la media OCSE: quasi l'undici per cento, cioè l'ottavo posto.

Gli italiani sono, assieme agli Stati Uniti, sostanzialmente in cima alla classifica per investimenti di natura non azionaria (quindi obbligazioni e titoli di stato). La metà degli investimenti in obbligazioni delle famiglie italiane, spiega la Banca d'Italia, viene investita in titoli di stato: sono 135 miliardi di euro, circa il tre per cento della ricchezza finanziaria complessiva. Questo non significa che gli italiani detengano solo una piccola parte del debito pubblico italiano, anzi: ne hanno molte quote in maniera indiretta, dato che i fondi (soprattutto quelli pensione) e le banche ne detengono una buona percentuale. L'Osservatorio Conti Pubblici Italiani dell'Università Cattolica di Milano (diretto dal prof. Carlo Cottarelli) ha scritto a gennaio 2020 che le banche, le assicurazioni e i fondi comuni italiani detengono il 43 per cento del debito pubblico (solo il 25 per cento è delle banche).

Che cosa è successo nel 2020?
Bisognerà aspettare ancora qualche mese prima di farsi un'idea degli effetti della pandemia sulla ricchezza delle famiglie. Intanto, però, possiamo guardare ai rapporti delle istituzioni e delle associazioni, come quelli mensili dell'ABI, l'Associazione Bancaria Italiana.

Nel suo report mensile pubblicato a gennaio 2021, ha stimato che a dicembre 2020 i depositi e il denaro circolante hanno superato i 1700 miliardi di euro: un incremento del 10 per cento, rispetto ai 1575 miliardi dell'anno precedente. Questo incremento del tasso di risparmio è senza precedenti e riflette un clima di insicurezza generale, nel quale è meglio accantonare quanto più possibile nell'eventualità, per esempio, di perdere il lavoro e non avere una fonte di reddito per diversi mesi.

Di conseguenza, sono diminuiti gli investimenti: a novembre 2020 i conti a custodia e deposito titoli hanno registrato una riduzione pari a oltre 46 miliardi di euro (il quattro per cento) rispetto all'anno precedente. Di questi, appena più del venti per cento è intestato alle famiglie, con una riduzione dell'8,6 per cento rispetto all'anno precedente. Gli unici a crescere sono stati i titoli intestati alle assicurazioni (un aumento del due per cento rispetto all'anno precedente) e quelli dei non residenti (che rappresentano comunque meno del due per cento dei titoli a custodia).
Il rapporto non presenta i dati sulle attività finanziarie delle famiglie fino alla fine dell'anno (probabilmente dovremo aspettare il rapporto di Bankitalia sul 2020, che uscirà più avanti nel 2021). Il rapporto dell'ABI, però, presenta dei dati relativi al secondo trimestre, cioè tra marzo e giugno 2020. In questo periodo, la percentuale di depositi e contante è aumentata del sei per cento rispetto all'anno precedente e l'unica altra tipologia di strumento finanziario che ha registrato una crescita è stata quella delle assicurazioni sulla vita e quote dei fondi pensione (un aumento del 5,2 per cento). Al contrario, sono diminuite quasi del tredici per cento gli investimenti nelle obbligazioni, quasi del 3,7 per cento sulle azioni e quasi del tre per cento nelle quote dei fondi comuni.

Complessivamente, tra dicembre 2020 e dicembre 2019 il volume delle obbligazioni si è ridotto dell'8,6 per cento (tra novembre 2020 e novembre 2019 del 9,7 per cento): da 238 a 218 miliardi. Paradossalmente, però, si tratta del calo più piccolo dal 2015, quando le famiglie detenevano obbligazioni per oltre quattrocento miliardi di euro: anno dopo anno, il calo è sempre stato superiore al dieci per cento fino al 2019, quando la riduzione si è fermata a poco meno del due per cento. Come mai le famiglie italiane investono meno in obbligazioni? Come sempre in economia e finanza, le ragioni dei fenomeni sono molteplici: da un lato per via della crisi economica, dall'altro bisogna ricordare che la politica monetaria della banca centrale europea ha comportato una riduzione notevole dei tassi di interesse. Semplicemente, per le famiglie può essere diventato più conveniente investire in altri titoli con una prospettiva di guadagno maggiore.

E quindi?
Sembra ragionevole concludere che gli italiani non siano (o almeno non siano più) i risparmiatori di cui si sente spesso parlare. C'entrano molte cose: le ultime crisi, sicuramente, ma anche delle debolezze strutturali che sono gradualmente emerse dagli anni Duemila.
È vero però che le famiglie italiane detengono la maggior parte della loro ricchezza finanziaria sotto forma di contanti o depositi, ma si tratta di una caratteristica di diversi paesi europei, persino della Germania, un paese con un'economia più dinamica di quella italiana.
Le famiglie italiane preferiscono strumenti poco liquidi, soprattutto quando si tratta di investimenti per la pensione: principalmente assicurazioni sulla vita (molto di più rispetto ai paesi OCSE) e fondi pensione, anche se meno rispetto agli altri paesi. Bisogna anche ricordare che negli anni passati gli immobili costituivano sostanzialmente la metà del patrimonio totale delle famiglie. Fino al 2019, l'italia ha occupato comunque le prime posizioni per le quote detenute come fondi comuni e titoli non azionari (come le obbligazioni e i titoli di stato).
Complessivamente, gli italiani detengono quasi l'ottanta per cento del loro patrimonio in strumenti con basso rendimento: sostanzialmente negativo per i depositi e il contante (33 per cento), mentre positivo e meno volatile nel caso delle assicurazioni (18 per cento), dei fondi pensione (6 per cento) e dei fondi di investimento (11 per cento). La quota di investimenti azionari è quasi del 22 per cento: più del doppio rispetto ai tedeschi, ma inferiore a quella francese (quasi 23 per cento) e spagnola (28). Sia chiaro: non vuol dire che sia un investimento sbagliato: il momento storico in cui ci troviamo ha un peso non indifferente. L'Italia non è mai tornata ai livelli di crescita antecedenti alla crisi del 2008 ed è verosimile che questa situazione rispecchi una condizione di avversione al rischio che è diventata sistematica ed è stata accentuata dalla crisi economica scatenata dalla pandemia di COVID-19.