Percorso 5 Innovazione - A che punto è il fintech in Italia e in Europa?

Percorso 5 Innovazione - A che punto è il fintech in Italia e in Europa?
Innovazione, un percorso per Clienti Premium
28 Jul 21

A parlare di innovazione si corre il rischio di farsi prendere dall'entusiasmo e raccontare le nuove tecnologie come se fossero inevitabili e largamente diffuse. Per certi versi è vero, soprattutto quando si parla di fintech: persino in Italia i servizi di home banking sono sempre più centrali, mentre servizi come IO, l'app della pubblica amministrazione, e i fascicoli elettronici sanitari regionali stanno contribuendo alla digitalizzazione dei servizi del paese.


Secondo un'analisi dell'Osservatorio Fintech e Insurtech del Politecnico di Milano, nel 2018 undici milioni di italiani (cioè un quarto della popolazione tra i 18 e i 74 anni) «hanno utilizzato almeno un servizio fintech o insurtech con una soddisfazione media elevata», con un aumento del 54 per cento rispetto all'anno precedente. Si tratta di numeri importanti, che racchiudono anche storie di startup di successo, ma che è importante mettere in prospettiva. A che punto è l'Unione Europea nello sviluppo del fintech? E l'Italia?


Il fintech in Europa rispetto al resto del mondo


Stando a un sondaggio condotto dal dipartimento di ricerca di Statista in alcuni paesi del continente europeo, nel 2019 in Italia il tasso di adozione di soluzioni fintech tra i consumatori è stato del 51 per cento, contro il 56 per cento in Spagna, il 64 per cento in Germania e il 71 per cento nel Regno Unito, ma meglio del 42 per cento di Belgio e Lussemburgo e anche del 35 per cento francese. Il dato è confermato da un rapporto di EY, una delle più grandi società di servizi di consulenza, che riporta anche le percentuali di Canada (50 per cento), Stati Uniti (46 per cento) e Giappone (34 per cento).


In cima alla classifica ci sono anche dei paesi inaspettati: l'India condivide il gradino più alto del podio con la Cina (87 per cento), mentre tra i paesi occidentali con un tasso di adozione superiore all'ottanta per cento compare solo la Russia. Colombia, Perù e Messico sono nelle prime dieci posizioni, assieme a Paesi Bassi, Irlanda e Regno Unito: tutti quanti con un tasso superiore al 70 per cento. Per quanto riguarda l'adozione di soluzioni fintech tra le piccole e medie imprese (PMI), EY considera solo cinque paesi, di cui solo il Regno Unito per il continente europeo. In questo caso, la situazione è molto diversa: il 61 per cento delle imprese cinesi ha implementato soluzioni fintech, contro il 23 per cento in USA e il 16 per cento nel Regno Unito.


Gli altri paesi europei non compaiono perché finora il fintech nel continente è (stato) praticamente trainato dai paesi anglosassoni: secondo un rapporto commissionato dal governo britannico, il Regno Unito rappresenta addirittura il dieci per cento del fintech mondiale, con ricavi per quasi 13 miliardi di euro. Gli analisti citano anche una stima di Innovate Finance, secondo cui gli investimenti nel fintech nel mondo ammontavano a 44 miliardi di dollari (37 miliardi di euro) nel 2020. Di questi, 24 miliardi (20 miliardi di euro) sono negli USA, 10 (quasi 8,5 miliardi di euro) in Cina e 9,3 (poco meno di 8 miliardi di euro) in Europa. Degli investimenti europei, però, quasi la metà sono concentrati nel Regno Unito: oltre 4 miliardi di dollari, cioè quasi 3,5 miliardi di euro - più degli investimenti complessivi dei cinque paesi che vengono dopo il Regno Unito nella classifica.

Questo scenario sembra destinato a cambiare, anche a causa di Brexit. Durante i negoziati per il nuovo accordo commerciale, infatti, i settori dei servizi digitali sono stati trascurati, suscitando una grande incertezza nell'intero settore finanziario del paese. Il London Stock Exchange non è più la più grande borsa europea per volumi di scambi: a febbraio è stata scalzata da Euronext, con sede ad Amsterdam, che a ottobre 2020 ha anche acquisito Piazza Affari. La Brexit ha comportato un esodo di aziende anche dal settore finanziario, che preferiscono trasferirsi nell'UE per non perdere l'accesso al mercato europeo. Secondo una stima citata da Cointelegraph, una rivista online che si occupa di finanza e in particolare di criptovalute, circa 440 istituti finanziari si sono spostati verso le borse europee - tra cui la stessa Satispay, che ha dovuto trasferire la sua controllata Satispay Ltd da Londra al Lussemburgo per mantenere la sua licenza di Istituto di Moneta Elettronica (la sede principale resta a Milano). La banca tedesca N26 si è ritirata completamente dal mercato britannico, mentre Revolut ha trasferito la sede delle sue attività europee a Dublino.


Insomma, sembra che il settore fintech continuerà a crescere nell'UE, che dopotutto è sempre un mercato da quasi 450 milioni di persone. EY spiega che uno dei principali motori della crescita del fintech è stata la revisione della direttiva europea sui servizi di pagamento (nota come PSD2, cioè Payment System Directive 2), che ha imposto agli istituti bancari europei di offrire delle API aperte - in altre parole, di rendere sistematicamente disponibili i propri dati ad aziende terze, chiaramente con il consenso degli utenti. Questo permette di facilitare i pagamenti online, senza passare ad esempio attraverso i circuiti come Visa, ma anche a terze parti di sviluppare servizi fintech sfruttando l'accesso ai dati dalle banche - ad esempio un'app per monitorare contemporaneamente tutti i risparmi di chi ha più di un conto corrente, un po' come fa Mint negli USA.


E in Italia?
Secondo un rapporto dell'Osservatorio Fintech e Insurtech del Politecnico di Milano, nel 2019 in Italia operavano 326 startup fintech - di queste, circa la metà ha partecipato alla ricerca. Quasi cento delle aziende intervistate sono in Lombardia (e poco più di ottanta a Milano) e oltre la metà (55 per cento) si rivolge solo al mercato italiano, mentre il 26 per cento guarda anche al mercato dell'Unione europea e il 18 per cento anche a quello extra-UE. Queste startup offrono prevalentemente servizi B2B, cioè per imprese (65 per cento), e B2C, cioè ai singoli consumatori (55 per cento). Tutte le startup hanno complessivamente raccolto 650 milioni di euro in investimenti, quelle intervistate ne hanno raccolti 480, di cui 340 solo in Lombardia.


Il 42 per cento delle startup opera nel settore dei servizi bancari - puntando sia a sostenere gli istituti di credito nella transizione digitale sia a sostituirli - mentre il 35 per cento negli investimenti. Al terzo posto ci sono i servizi di assicurazione (21 per cento) e  complessivamente un quarto delle startup si occupa di servizi «non prettamente finanziari» ma che offrono a clienti di questo settore, come la cybersecurity.


Tra queste aziende ci sono alcune storie di grande successo: Satispay, fondata nel 2013, è stata una delle prime startup di questo settore, che senza essere una banca si è specializzata nei pagamenti digitali. Satispay, infatti, funziona "agganciandosi" al proprio conto corrente, e tramite la geolocalizzazione dal proprio cellulare permette di trovare i negozi aderenti e di pagare rapidamente sfruttando ad esempio i QR code. Ma con Satisapay si possono anche pagare MAV e bollettini, o effettuare ricariche del telefono - funzioni che le altre banche si sono dovute affrettare a implementare e che oggi sono praticamente la norma. Nel 2020, Satispay ha superato il milione di utenti e i centomila esercizi commerciali iscritti al servizio, e ha complessivamente ottenuto finanziamenti per più di centotrenta milioni di euro.


Un'altra fintech made in Italy è quella di Soisy, che si legge come l'inglese so easy, cioè "molto facile". Soisy è nata come un sistema di peer-to-peer o social lending: in parole povere, una piattaforma per trovare prestiti senza passare per un intermediario finanziario, connettendo direttamente gli investitori privati. Nel 2017, però, ha rivisto il suo modello di business, specializzandosi in prestiti finalizzati agli acquisti online. Praticamente, Soisy "raccoglie" i risparmi di chi vuole investire e li usa per anticipare i pagamenti ad alcuni e-commerce, soprattutto di alta gamma; il prestito viene ripagato dal consumatore che così riesce ad acquistare il prodotto a rate. Soisy è stata fondata nel 2015 e secondo Crunchbase, un'autorevole piattaforma che raccoglie dati finanziari su aziende sia quotate che private, ha raccolto un milione e trecentomila euro di finanziamenti.


Il campione del fintech italiano è sicuramente Nexi, che si occupa di offrire servizi di pagamento digitali alle banche e alla pubblica amministrazione. In particolare, si occupa soprattutto di acquiring, cioè la fornitura e la gestione dei POS (point of sale, cioè punti di pagamento elettronico), e di issuing, cioè l'emissione di carte di credito e di altri metodi di pagamento digitale, più la gestione di tutti i sistemi che ci sono dietro. A ottobre, Nexi ha annunciato che avrebbe acquisito SIA, una controllata da Cassa Depositi e Prestiti (cioè dal Ministero delle Finanze), che è un payment processor, cioè un creatore e gestore dell'infrastruttura sottostante al sistema bancario, che fa in modo che tutti i passaggi nei sistemi di pagamento avvengano in modo corretto.


Con questa fusione, si è stimato che il valore di Nexi sarebbe cresciuto a quindici miliardi di euro, diventando praticamente il più grande fornitore di pagamenti elettronici in Europa, processando transazioni per 21 miliardi di euro tra due milioni di esercizi e centoventi milioni di carte. Appena un mese dopo la fusione con SIA, Nexi ha acquistato anche l'omologo danese Nets per quasi otto miliardi di euro.


L'Italia arranca?


Salvo Nexi, le startup fintech italiane non sono ancora sullo stesso piano di aziende come N26 e Revolut, che hanno valutazioni superiori al miliardo di euro, o come Klarna, il servizio svedese per pagare a rate gli acquisti online che dal 2005 ha raccolto oltre tre miliardi di euro di finanziamenti. A fare la differenza, chiaramente, sono tanti elementi del contesto italiano: un confronto tra il Regno Unito e il nostro paese sarebbe fuori luogo, visto che l'ex paese UE ha raccolto la metà degli investimenti fintech in tutta Europa.


Come mai il nostro paese è più indietro rispetto agli altri grandi paesi europei? Da una parte, ci sarebbe da affrontare la questione di quanto sia facile fare impresa in Italia: secondo l'indice Ease of Doing Business elaborato dalla Banca Mondiale, nel 2019 il nostro paese era al cinquantottesimo posto al mondo, mentre il Regno Unito all'ottavo, la Germania al ventiduesimo e la Francia al trentaduesimo. L'indice viene elaborato basandosi fondamentalmente sulla mole di burocrazia che le aziende devono affrontare, sia in termini di permessi che di tassazione che di tempi della giustizia, ma anche di accesso al credito e di fornitura di energia elettrica.


Oltre a questo, bisogna anche considerare quanto siano diffusi i servizi digitali. Ad esempio, secondo un rapporto di PwC, un'altra delle più grandi società di servizi di consulenza, l'Italia nel 2020 si colloca al ventitreesimo posto rispetto ai paesi UE per quanto riguarda la cashless society, cioè quanto i pagamenti digitali sono preferiti a quelli con i contanti. Secondo l'analisi, in Italia nel 2019 sono state effettuate settantasette transazioni pro capite, cento in meno rispetto alla media europea: una crescita del settantacinque per cento rispetto al 2015 e certamente più grande di quella europea, ma che segnala come i pagamenti digitali siano ancora poco diffusi, specie per quanto riguarda le piccole somme. I pagamenti digitali, infatti, nel 2019 sono stati solo una frazione del totale: appena meno del dodici per cento. La pandemia, comunque, ha accelerato i processi di digitalizzazione: PwC stima che nel 2021 i pagamenti digitali varranno il quindici per cento del totale, che senza pandemia si sarebbero fermati al tredici per cento.