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Federico Leoni (Sky Tg24): «Vi racconto l’America di oggi e quella guerra civile a bassa intensità»

«Si tratta di uno stato di violenza latente e diffusa. Perché ciò che gli USA stanno vivendo è una guerra civile che non si combatte con le armi perché culturale». L’analisi di Federico Leoni, giornalista di SkyTg24 e autore del Podcast “America contro”
Federico Leoni (Sky Tg24): «Vi racconto l’America di oggi e quella guerra civile a bassa intensità»
Un momento del dibattito tra Donald Trump e Kamala Harris durante il loro primo dibattito presidenziale negli studi di Philadelphia della Abc News (VCG / via Getty Images)
18 Jul 24
#usa #scenari

Gli americani sono tutti impazziti? È una domanda che mi sento ripetere spesso quando incontro i lettori dei miei libri o i telespettatori che mi seguono su SkyTg24. C’entra, ovviamente, la cronaca degli ultimi tempi: la vittoria di Donald Trump nel 2016, la “Grande Bugia” dell’elezione rubata, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, un presidente scaricato dal suo stesso partito e il suo predecessore sotto processo, oggetto di condanna e poi addirittura nel mirino di un attentatore sanguinario. 

L’elenco potrebbe continuare, ma a questo punto immagino vogliate una risposta. Quella breve suona così: no, gli americani non sono tutti impazziti. Quella lunga ha a che fare (anche) con i meccanismi che regolano il Paese. L’attentato di Butler, in Pennsylvania, ha suscitato un coro di appelli all’unità e alla coesione, ma le buone intenzioni saranno vane se non si affronteranno le ragioni più profonde della tensione sociale. Polarizzazione e retorica politica violenta non sono un’esclusiva degli Stati Uniti, ma qui hanno trovato un terreno particolarmente fertile per ragioni (anche) istituzionali. 

La Costituzione statunitense è stata approvata in un’epoca pre-democratica, quando a preoccupare chi le costituzioni le scriveva non erano tanto le pretese della minoranza quanto i capricci della maggioranza, una maggioranza che in fondo rappresentava il popolo stesso e che si supponeva volubile e poco razionale. Per arginare la minaccia i padri fondatori approvarono una serie di meccanismi anti-maggioritari che con il tempo si sono fatti per certi versi addirittura più numerosi ed estesi. L’esempio più concreto riguarda il sistema elettorale e in particolare i piani sfalsati su cui si muovono voto popolare e responso delle urne. Le caratteristiche dei distretti elettorali, il modo in cui vengono tracciati e le differenze ideologiche e demografiche tra zone rurali e zone urbane fanno sì che uno dei due schieramenti – oggi quello democratico – abbia bisogno per imporsi di una maggioranza molto più consistente del semplice “cinquanta per cento più uno” dei votanti. È soprattutto per questo che da alcuni anni una minoranza particolarmente agguerrita di americani, quella trumpiana, riesce a tenere in scacco la maggioranza della popolazione, custode di idee molto più moderate di quelle che ultimamente il pubblico italiano tende ad associare ai cittadini statunitensi.

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Gli Stati Uniti sono in preda a una radicale polarizzazione che divide il Paese da tempo e che con il tempo non fa che acuirsi

So cosa state pensando. Se i meccanismi istituzionali non funzionano, non si possono riformare? Certo, in teoria. In pratica servirebbero collaborazione, rispetto reciproco e unità d’intenti. Esattamente quello che oggi, in America, manca. Le divisioni impediscono di cambiare le regole difettose e le regole difettose approfondiscono le divisioni. È il proverbiale circolo vizioso. Gli Stati Uniti sono in preda a una radicale polarizzazione che divide il Paese da tempo e che con il tempo non fa che acuirsi. Con l’inizio dell’era trumpiana, le crepe che segnano la società si sono fatte evidenti, ma in realtà si tratta di dinamiche le cui origini risalgono addirittura alla Guerra Civile, attraversano il periodo delle battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta, soffrono le ripercussioni occupazionali della globalizzazione e della delocalizzazione produttiva, s’intrecciano con il malessere per l’andamento delle guerre post 11 settembre, alimentano la rivolta del Tea Party dopo l’elezione di Obama e infine consegnano un partito repubblicano fragile e disorientato a Donald Trump.

Perdonatemi se la sintesi è stata estrema, se non addirittura brutale. Da chi è formato il popolo trumpiano? Non sono solo bianchi, eppure il colore della pelle in qualche modo c’entra. Nel 2022, secondo il Pew Research Center, le minoranze etniche rappresentavano appena il 15% dell’elettorato repubblicano. Non sono solo cittadini in difficoltà economiche, eppure i soldi in qualche modo c’entrano. Secondo l’Harper’s Index nel 2019 i distretti congressuali rappresentati da repubblicani tra i venti meno ricchi della nazione erano sedici, quelli rappresentati da democratici tra i venti più ricchi erano venti: la totalità. I trumpiani non risiedono solo negli stati del sud, eppure la collocazione geografica c’entra. Sempre secondo l’Harper’s Index i repubblicani hanno vinto il 97% delle elezioni tenutesi nel profondo sud tra il 2008 e il 2019.

C’è chi ha tirato in ballo il rischio di una nuova Guerra Civile, ma si tratta soprattutto di uno stato di violenza latente e diffusa

A unire i trumpiani, però, è in realtà soprattutto la condivisione di un sentimento di espropriazione. C’è una parte dell’America convinta di rappresentare l’anima più autentica del Paese e convinta allo stesso tempo che quello stesso Paese stia per essere cancellato dall’attacco coordinato di democratici corrotti, repubblicani conniventi, potenze straniere spregiudicate e oscuri poteri forti egoisti e immorali. C’è chi ha trovato il modo di lucrare su questo risentimento, forse sgraziato ma di certo sincero. Nel mio saggio “America Contro” li chiamo imprenditori dell’odio e per fare il proprio interesse giocano con il fuoco. C’è chi ha tirato in ballo il rischio di una nuova Guerra Civile, ma non pensate a eserciti schierati, divise regolari e una linea del fronte precisa. Si tratta soprattutto di uno stato di violenza latente e diffusa. Il professore di Austin Jeremi Suri ha intitolato il suo saggio sulla crisi della democrazia americana “Civil War by Other Means”, ossia La Guerra Civile con altri mezzi. Nel saggio “How Civil Wars Start” Barbara F. Walter ha scritto che a dare inizio alle guerre civili sono soprattutto «coloro che un tempo godevano di un privilegio e che adesso si sentono privati di uno status a cui sono convinti di avere ancora diritto».

La perdita di status è il primo motore della guerra civile a bassa intensità che in America si combatte ormai da anni. Lo scontro verte su temi concreti: l’inflazione, l’aborto, il gun control, l’immigrazione. Ma è soprattutto una questione ideale, di cultura pubblica. Si tratta di stabilire cosa significa essere americani, di fissare il concetto di bene collettivo, di indicare la direzione del Paese, di stabilirne i miti fondanti. «Non esiste una guerra che non sia stata preceduta da uno scontro culturale, perché è la cultura che fornisce motivi alla violenza». Lo ha scritto James Davison Hunter. Cultus in latino significa «ciò che noi riteniamo sacro». E chi mai verrebbe a patti su ciò che considera sacro? Secondo un sondaggio Pbs dello scorso aprile un americano su cinque ritiene che i cittadini potrebbero dover ricorrere alla violenza per rimettere il Paese in carreggiata. Non sarà una semplice tornata elettorale a mettere fine allo scontro. 

La battaglia dell’America contro sé stessa continuerà anche dopo il 5 novembre. Saremo ancora nell’era di Trump, anche se Trump non dovesse vincere.