Quelle mani che fanno squadra: così si scende in strada e insieme si ripara la città
Sull’isola di Bornholm, in Danimarca, l’orizzonte è punteggiato da mulini a vento e case bianche, ma la vera rivoluzione non si vede a occhio nudo. È nel ciclo dei rifiuti. Qui, entro il 2032, l’obiettivo è radicale: diventare una società senza scarti, dove ogni materiale che chiamiamo rifiuto venga invece trattato come risorsa da reinserire in un nuovo ciclo di vita. Non una promessa astratta, ma un piano operativo che National Geographic qualche anno fa ha raccontato con dovizia di particolari: raccolta capillare, tecnologie evolute, educazione civica, incentivi economici. È l’isola che si ribella all’idea stessa di discarica e prova a scrivere una grammatica alternativa. Bornholm è l’inizio del nostro racconto perché segna la traiettoria di un mondo che non può più permettersi sprechi. Lo sanno bene le istituzioni internazionali: la Circle Economy Foundation, rilanciata dall’Economist, ci ricorda che la circolarità globale arretra dal 9,1% al 7,2% in sei anni. In sostanza quasi tutto ciò che estraiamo non ritorna in ciclo. Numeri che gelano.
Ma accanto alle statistiche fredde ci sono storie calde come quella di Bornholm, che raccontano un possibile diverso: recycling e upcycling non come vezzi estetici, ma come condizioni di sopravvivenza e innovazione. C’è una differenza che conviene chiarire: il recycling recupera materia e la riporta a nuova vita, l’upcycling rilancia lo scarto a un livello più alto, lo trasforma in oggetto di valore, in spazio comunitario, in simbolo condiviso. Lo scrivevano William McDonough e Michael Braungart nei loro testi fondativi parlando di “cradle to cradle”: la materia non ha fine ma una successione di destini. D’altronde Elinor Ostrom ci insegna che i beni comuni resistono solo se gestiti collettivamente. E non a caso Tim Brown, padre del design thinking, parla di vincoli trasformati in motori creativi. Sono tasselli che insieme compongono la cornice teorica di recycling e upcycling: non solo ambiente, bensì cultura. E a un certo punto queste teorie escono dai libri e scendono in strada. Letteralmente. È qui che entra in gioco il volontariato aziendale.
Volontariato d’azienda
Dalla teoria alla pratica, potremmo dire. Perché il volontariato aziendale oggi non è più solo raccolta fondi o mentoring: è anche guanti di gomma, scope, pennelli, martelli. È la dimensione ambientale, upcycling e recycling inclusi, che prende corpo e che attira sempre più persone. L’Associated Press ha raccontato il trend: dopo la pandemia le aziende offrono programmi più flessibili e più concreti e i dipendenti rispondono in massa. L’Academy of Management Journal conferma che il volontariato rafforza il legame con l’organizzazione, stimola motivazione e migliora performance. Deloitte stima che oltre 9 lavoratori su 10 considerano le opportunità di volontariato decisive per l’esperienza lavorativa e per l’orgoglio di appartenenza. Torniamo alle immagini, che valgono più di mille parole. La scena è questa: scarpe impolverate, guanti di gomma, sacchi che si riempiono, bambini che fanno domande, nonni che passano e dicono “bravi”. È il momento in cui l’impresa scende dal palco e va sul marciapiede. Non c’è keynote, non c’è slide perfetta: c’è un gesto corale che trasforma rifiuti in materia, scarti in storie, parchi in luoghi. È qui che il volontariato aziendale smette di essere post su LinkedIn e diventa infrastruttura civica. È qui che l’upcycling e il recycling non sono parole chiave ma pratica condivisa. Tutto questo lo cogli nel Sella Volunteer Day: centinaia di persone, colleghi del Gruppo Sella e famiglie in nove città italiane coordinate da Legambiente per il quarto anno. Obiettivo: ripulire e recuperare parchi, giardini, piazze, spiagge. Una grammatica comune che passa di mano in mano: cosa si separa, cosa si riusa, cosa si dona alle filiere del riciclo. Non è un gesto spot: è una competenza che resta nel territorio e dentro l’azienda, perché dopo la maglietta e la foto rimangono le relazioni, i contatti con le associazioni, una mappa di bisogni a cui tornare. È tutto documentato: città, numeri, metodo. E una certezza semplice: la cittadinanza attiva è contagiosa quando la vivi insieme. Fuori dall’Italia, la stessa scena si ripete con accenti diversi. World Cleanup Day muove ogni anno milioni di persone e migliaia di imprese: reparti interi escono dall’open space per liberare fiumi e spiagge, spesso in partnership con scuole e comuni. Il suo valore non sta solo nei sacchi riempiti, ma nel prima (formazione, kit, tracciamento) e nel dopo (canali per l’avvio a riciclo, segnalazioni alle municipalità, micro-manutenzioni replicabili). È una macchina globale che ha persino trovato spazio nell’agenda ufficiale delle Nazioni Unite: non un happening, ma una routine civica misurabile.
I giornali raccontano la nuova domanda di senso che arriva dagli uffici: nel post-pandemia aumentano i programmi di volontariato d’impresa, con piattaforme che registrano più partecipazione e più ore e con un mantra condiviso: flessibilità, impatto reale, attività che parlano al mestiere delle persone. Da Microsoft a Blue Cross Blue Shield, i team vogliono progetti mani in pasta e possibilità di usare anche le competenze professionali sul campo. Il risultato? Engagement che cresce, turnover che scende. La psicologa del lavoro Jessica Rodell lo spiega così: il volontariato è una leva che rafforza l’identificazione organizzativa e la volontà di restare. CECP – Giving in Numbers 2024 indica una partecipazione del 23% dei dipendenti ai programmi di volontariato, con una crescita del 75% delle ore dal 2021 al 2023 e 45.600 ore mediana donate per azienda; il settore finanziario guida la partecipazione con il 29%. Il dato chiave, però, è un altro: i programmi funzionano quando sono flessibili. È la prova che il “come” pesa quanto il “quanto”. Così le opportunità di volontariato migliorano l’esperienza di lavoro e il legame con l’azienda; circa la metà afferma di sentirsi orgogliosi del proprio posto. Tradotto: il volontariato ambientale non è maquillage, è driver culturale. C’è poi la dimensione formativa: Times ha raccontato come questa forma di volontariato apra competenze trasversali – leadership, problem solving, gestione del tempo – e si traduca persino in benefici salariali e di produttività in studi britannici sul valore economico del give-back professionale. Non è retorica: è capitale umano che si forma su problemi reali — coordinare un gruppo di volontari, mappare rifiuti, dialogare con il quartiere — e poi rientra in azienda con strumenti nuovi. La regia civica fa la differenza: senza filiere e partner, la “giornata” resta sospesa; con la filiera, diventa prototipo di economia circolare.
Alimentare le reti
Qui torna utile la cornice accademica. La già citata Rodell dell’Academy of Management Journal dimostra come il volontariato accresca l’identificazione con l’organizzazione e la motivazione prosociale, con effetti su performance e retention. Il grande pensatore americano e massimo teorico delle organizzazioni Adam Grant ricorda che “dare” alimenta reti e competenze che ritornano (il cosiddetto giver advantage) e nelle politiche pubbliche contano le reti corte: quelle che il volontariato attiva e che, se ben orchestrate, trasformano gli interventi puntuali in manutenzione comunitaria. I progetti di volontariato di competenza sviluppano capacità interculturali e di problem solving trasferibili al lavoro quotidiano. È la pedagogia del fare: si impara perché si mette mano.
A lezione di placemaking
E gli esempi di upcycling “vivo”? Ci sono gli hub che le aziende frequentano da partner e volontari: BeeOzanam a Torino, che è una ex fabbrica che oggi è community hub con laboratori di riuso e corsi dove i team aziendali tornano a fare bottega per un giorno, ma anche a supportare percorsi continuativi. Moltivolti a Palermo, spazio sociale che accoglie coworking, ristorante e progettazione civica, con possibilità di volontariato operativo e professionale. Nel mondo anglosassone cooperative come The Remakery a Londra trasformano surplus di materiali in occasioni formative: qui i volontari d’impresa non portano solo braccia, portano mestieri (designer, maker, comunicatori) per abilitare micro-imprese e cittadini. Il cerchio si chiude quando il legno recuperato diventa arredo per una biblioteca di quartiere, quando la plastica “nobile” torna gioco o arredo, quando i team mantengono il legame e tornano, trimestre dopo trimestre. Una nota importante: i programmi migliori non si fermano al gesto manuale. Mappano i rifiuti raccolti, alimentano banche dati comunali, aprono canali di second life (upcycling artigianale o industriale), si agganciano a scuole e università, misurano output e outcome. I benchmark ci dicono che le aziende che investono in regia – ossia in governance, partner locali, community manager, filiere per lo smaltimento e il riuso – costruiscono valore che resta. Più programmazione, più partecipazione. In fondo, il volontariato aziendale ambientale è un kintsugi urbano fatto di tute catarifrangenti e vernice: non nasconde la crepa, la evidenzia. L’oro, questa volta, non è polvere preziosa: è il tempo delle persone, la competenza condivisa, la filiera che riporta allo scopo. È il momento in cui l’impresa, sia eccellenza o aspirante tale, capisce che la sua reputazione è un bene comune: si costruisce sul campo, insieme, un sacco alla volta, un pannello riusato alla volta, una panchina alla volta. Torniamo al Sella Volunteer Day. Giunto alla quarta edizione, ha visto centinaia di dipendenti e famiglie impegnarsi in nove città italiane, coordinati da Legambiente, per ridare dignità a spazi comunitari. Non solo pulizia, ma riuso: plastica raccolta che trova nuove filiere, legno rigenerato in arredi urbani, cortili scolastici rimessi a disposizione dei bambini. È una grande lezione di placemaking: quando lo spazio torna luogo grazie al gesto collettivo. È, soprattutto, un laboratorio di cittadinanza attiva che si traduce in capitale sociale. Dall’Italia al resto del mondo, da Sella ai casi di successo internazionali. C’è il Global Month of Service di General Electric, che da anni mobilita dipendenti in progetti ambientali su scala globale. C’è il World Cleanup Day citato prima e che porta milioni di volontari d’impresa e cittadini comuni a liberare spiagge e fiumi, con un metodo misurabile che parte dal training e arriva alla filiera del riciclo. Ci sono cooperative come The Remakery a Londra, che accolgono team aziendali per progetti di upcycling: falegnamerie sociali dove i tavoli si costruiscono con scarti e dove i dipendenti imparano, nel giro di un pomeriggio, che la segatura è un’ottima maestra di teamwork. Lo ha scritto anche Jessica Rodell, University of Georgia nel suo articolo Corporate volunteering and employee engagement: “Il volontariato aziendale non è periferico. È una via fondamentale attraverso cui i dipendenti connettono i propri valori personali alla vita professionale”.
Illuminare le fratture
Lo avete letto tra le righe poco sopra. C’è un’arte giapponese che si chiama kintsugi: ricompone i cocci di ceramica con oro liquido. Non nasconde le fratture, le illumina. È un gesto estetico e filosofico: la bellezza non è l’assenza di crepe, ma la loro esibizione, arricchita dalla cura. L’upcycling e il recycling fanno lo stesso con i materiali e con le città: non cancellano la storia, la raccontano. Il volontariato aziendale, con giornate come il Sella Volunteer Day o come le grandi mobilitazioni globali, traduce questa filosofia in pratica. Le crepe delle nostre comunità – ossia spazi abbandonati, parchi trascurati, muri scrostati – non vengono nascosti, ma riempiti d’oro. Oro fatto di mani, tempo, relazioni, passioni. Alla fine resta questo: l’impresa che scende in strada non fa solo bene al quartiere, ma fa bene a sé stessa. Scopre che la sostenibilità non è un capitolo di bilancio, ma una grammatica quotidiana. E ancora, che la reputazione non si compra, ma si costruisce. O che l’innovazione non è solo nei laboratori, ma anche nei cortili riparati insieme. E che, come in ogni kintsugi, il valore vero non sta nell’oggetto integro, ma nella cicatrice che torna a nuova vita. Che si illumina d’immenso.